ROMA – La Striscia di Gaza sotto il controllo degli Stati Uniti per essere “ripulita dalle macerie”, “ricostruita” e pronta ad accogliere “popoli dalla regione”: questo il progetto che il presidente Donald Trump ha proposto immaginando una nuova “Riviera del Mediterraneo”. Che però, non tiene conto dei suoi attuali abitanti. Quei due milioni e 200mila palestinesi residenti secondo Trump dovrebbero essere “ricollocati in 4-5 zone” tra Egitto e Giordania. “Stiamo tornando indietro di un secolo, quando, a cavallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, le grandi potenze annetterono altri Paesi dell’Africa o dell’Asia, come fece anche l’Italia con l’Etiopia tra il 1935 e il 1936” sottolinea in un’intervista con l’agenzia Dire Micaela Frulli, docente di Diritto internazionale dell’Università di Firenze. “Inoltre, trasferire i palestinesi con la forza, come fossero oggetti da traslocare, tecnicamente è deportazione, e può configurare una pulizia etnica”.
La studiosa parte da una premessa: “Sfollamento e trasferimento forzato di civili palestinesi purtroppo non rappresentano una novità, sono già avvenuti da decenni in quell’area e soprattutto continuano ad avvenire sotto i nostri occhi da oltre un anno e mezzo”. Dal 7 ottobre 2023, col lancio dell’offensiva militare israeliana sulla Striscia come reazione all’attacco subito da Hamas, denuncia Frulli, “abbiamo visto la popolazione civile di Gaza costretta a spostarsi di volta in volta in zone diverse della Striscia”. Secondo l’Onu, un milione e 800mila persone hanno dovuto lasciare le proprie case, la quasi totalità. “C’è chi ha dovuto spostarsi oltre dieci volte dall’ottobre 2023, senza avere peraltro un posto dove andare” sottolinea Frulli. “Sarebbe invece responsabilità della potenza occupante, Israele, garantire loro un rifugio e condizioni di vita dignitose”.
IL RISCHIO DI DEPORTAZIONE, CHE IN CERTI CASI CONFIGURA GENOCIDIO
Tornando alla proposta di Trump di ricollocare forzatamente tutta la popolazione fuori da Gaza, Frulli precisa: “Tecnicamente, si tratterà di deportazione”. Poco cambia se si usa o meno questo termine: “Si tratta- continua la studiosa- di una pratica vietata, che corrisponde non solo a una grave violazione dei trattati in materia di tutela internazionale dei diritti umani, ma, in certe condizioni, può anche configurarsi come un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità, nonché come elemento materiale del crimine di genocidio, in particolare nel caso in cui coinvolga minori, come sicuramente avverrebbe in questo caso”.Insomma, secondo Frulli “se gli Stati Uniti decideranno di partecipare, o ancora peggio, di organizzare con Israele un piano di deportazione di massa, si renderanno responsabili di gravissime violazioni del diritto internazionale”. Un tema che non sembra preoccupare Trump, che ha imposto un pacchetto di sanzioni contro giudici e funzionari della Corte penale internazionale che hanno partecipato all’inchiesta che ha portato a un mandato d’arresto contro il premier Benjamin Netanyahu per crimini di guerra e contro l’umanità commessi proprio a Gaza. E ieri, nulla ha impedito al presidente americano di accogliere Netanyahu a Washington, sebbene i difensori dei diritti umani avessero chiesto di rispettare il mandato d’arresto. Frulli commenta: “Per Trump il diritto internazionale sembra carta straccia”.
IL NODO DELLA PULIZIA ETNICA
Ma se questo piano andrà in porto, si potrà parlare di pulizia etnica? “Sicuramente sì” replica la studiosa. “La pulizia etnica- prosegue- non corrisponde a una fattispecie criminale, non ne abbiamo una definizione giuridica. Tuttavia, ne abbiamo una descrizione contenuta in alcuni documenti come i rapporti della commissione d’inchiesta Onu inviata in ex Jugoslavia nel 1992 – e guidata dal giurista egiziano Bassiouni – per indagare sulle violazioni gravi del diritto umanitario commesse nel contesto di quel conflitto; la commissione suggerì la creazione del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia”.
La pulizia etnica, prosegue Frulli, “consiste in una serie di condotte poste in essere con l’obiettivo di rendere un’area etnicamente omogenea. Tra le condotte elencate nella definizione di pulizia etnica rientrano sicuramente il trasferimento forzato di civili e la deportazione. Dal punto di vista del diritto, tali condotte miranti a colpire un determinato gruppo con intento discriminatorio, in questo caso i palestinesi, potrebbero configurare il crimine di persecuzione, che è un crimine contro l’umanità. Avallare tali condotte o peggio, essere parte attiva nell’organizzare la deportazione, configurerebbe responsabilità politiche e giuridiche gravissime in capo agli Stati e agli organi di Stati coinvolti”. Peraltro, avverte l’esperta, “la prospettiva è fermamente respinta dai Paesi identificati da Trump come destinazione dei palestinesi, ossia Egitto e Giordania. È inoltre inquietante che gli Stati Uniti prefigurino una loro presenza a Gaza, non si capisce bene se per sostituire o affiancare Israele, che già da decenni pratica un’occupazione che la Corte internazionale di giustizia nel luglio del 2024 è definito in sé e per sé illegale”.
Altrettanto inquietante, conclude Frulli, “è l’annuncio di avere un ruolo nella ipotetica annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Sono dichiarazioni che gli stessi Stati Uniti definirebbero, secondo una terminologia da loro adottata anche giuridicamente, provenienti da uno ‘Stato canaglia’ e che rischiano di produrre conseguenze che al momento sono molto difficilmente immaginabili”.
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