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Il mercato delle scarpe deve diventare circolare. Fashion for Good unisce 14 noti brand di moda

I grandi brand di scarpe coinvolti nell’iniziativa Closing the footwear loop affronteranno davvero il problema degli sprechi legati all’industria delle calzature o sarà solo greenwashing?

Rendere circolare l’industria delle calzature ancora in ritardo  rispetto ad altri settori della moda. Si chiama “Closing the footwear loop”, un’iniziativa di Fashion for Good che riunisce 14 marchi attivi nel settore moda e delle calzature.

Ogni anno vengono prodotte più di 24 miliardi di paia di scarpe. Il 90% finisce nelle discariche, dal momento che per lo più sono difficili da riciclare. Una cifra che evidenzia l’importante impronta ambientale di questo settore.

Considerando che una scarpa è composta in media da più di 60 diversi componenti come tessuti, plastiche, gomma, adesivi, questo ostacola spesso l’adozione di pratiche circolari lungo tutta la catena del valore.

L’industria calzaturiera si trova a un punto di svolta cruciale. Con miliardi di scarpe prodotte ogni anno e il 90% finisce in discarica, Closing the Footwear Loop rappresenta il nostro sforzo più ambizioso per reimmaginare il modo in cui progettiamo, usiamo e smaltiamo le scarpe. Riunendo 14 marchi leader, non stiamo solo affrontando una sfida, stiamo creando un progetto per un cambiamento sistemico”, ha detto Katrin Ley, direttore generale di Fashion for Good.

Questo progetto fornirà una mappatura dettagliata dei flussi di rifiuti di calzature in Europa (in collaborazione con Circle Economy), che snocciolerà dati cruciali su volumi, materiali, vestibilità e riciclabilità.

Marchi che hanno aderito al Closing the footwear loop

Tra i marchi che hanno aderito all’iniziativa “Closing footwear loop” figurano Dr. Martens, Inditex, Zalando e persino Adidas. Il noto brand di sneakers, in passato, era stato denunciato da Zero Waste France per aver pubblicizzato alcuni modelli di scarpe con i claim “100% riciclato” o “soluzione contro i rifiuti di plastica”. Secondo l’organizzazione francese, si trattava solo dell’ennesimo caso di greenwashing. E questo è solo uno dei casi in cui Adidas si è distinta per le sue pratiche di produzione non propriamente sostenibili. Secondo un rapporto della piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money, la multinazionale tedesca, uno dei principali attori dell’abbigliamento sportivo e degli accessori sportivi, Adidas, contribuisce con la produzione delle sue sneakers allo sfruttamento dei lavoratori e alla deforestazione dell’Amazzonia.

Tra gli altri marchi che hanno aderito alla task force Deichmann, Footwear Innovation Foundation, Lululemon, On, Otto Group, Puma, Reformation, Target, Tommy Hilfiger e Vivobarefoot.

I grandi brand di scarpe coinvolti affronteranno davvero il problema degli sprechi legati all’industria delle calzature o sarà ancora una volta un modo per sembrare apparentemente più green? Staremo a vedere.

Divieto di distruggere scarpe invendute col nuovo regolamento europeo

Con il nuovo regolamento europeo Ecodesign for Sustainable Products Regulation (ESPR) cambiano le regole. Adesso chi dichiare di essere sostenibile dovrà dimostrarlo.

Oltre all’introduzione del Passaporto Digitale del Prodotto (DPP), il nuovo regolamento Ecodesign introduce anche il divieto diretto di distruzione di prodotti tessili e calzature invendute. Una necessità che parte dal presupposto che ci sono aziende in Italia e in Europa che, piuttosto che scontare i prodotti non venduti, preferiscono distruggerli e poi riciclarli. Questo fermerà le pratiche scorrette delle aziende? Lo abbiamo chiesto anche alla deputata PD Elenora EVi.

Per apparire “sostenibili”, molte aziende dicono di riciclare i loro prodotti, ma a volte, come nel caso delle scarpe, accade che da materiali invenduti e bruciati vengono poi riciclati in altri prodotti. Da qui l’ipocrisia del riciclo, o quello che più propriamente oggi viene chiamato greenwashing.

Nel 2017 il noto brand di fast fashion H&M finì sotto accusa per lo scandalo dei vestiti bruciati: parliamo di 12 tonnellate di vestiti all’anno. Il gruppo avrebbe incenerito circa 60 tonnellate di abiti invenduti e ancora utilizzabili dal 2013 al 2017. H & M smentì ovviamente subito queste affermazioni.

Il problema di brand come H&M e del modello del fast fashion è l’idea che, se qualcosa non è più di moda, allora non può più essere venduta. Ma non è solo il settore low cost ad aver applicato questo modello ai prodotti invenduti.

Nell’industria del lusso tra tutti fece scandalo nel 2018 il marchio Burberry per aver bruciato vestiti e accessori per un valore pari a 31 milioni di euro. Le firme più rinomate decidono di attuare questa pratica per tutelare “la proprietà intellettuale” delle loro creazioni e difendersi dal timore di contraffazioni o vendite sottocosto. Con il regolamento Ecodesign questa pratica, però, non sarà più possibile.

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