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Caravaggio torna a Roma: dal 7 marzo in mostra a Palazzo Barberini


ROMA – Ventiquattro capolavori straordinariamente concessi in prestito dai più prestigiosi musei nazionali e internazionali, in uno dei più importanti e ambiziosi progetti espositivi mai dedicati all’opera di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, realizzato in occasione del Giubileo 2025. Una mostra che racconta la forza innovatrice del pittore nel panorama artistico, religioso e sociale del suo tempo, riportando in un luogo simbolo della connessione tra l’artista e i suoi mecenati, capolavori riscoperti ed esposti per la prima volta in Italia, accanto a opere di collezioni private raramente visibili e altre entrate nell’immaginario collettivo, vere e proprie pietre miliari della Storia dell’Arte.

Dal 7 marzo al 6 luglio 2025 le Gallerie Nazionali di Arte Antica, in collaborazione con Galleria Borghese, presentano a Palazzo Barberini ‘CARAVAGGIO 2025’, una mostra a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon.

CARAVAGGIO 2025 è uno dei progetti più ambiziosi mai dedicati alla pittura di Caravaggio (1571-1610): con ventiquattro dipinti provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, italiane e internazionali la mostra di Palazzo Barberini offre un percorso tra opere difficilmente visibili e nuovi accostamenti, in uno dei luoghi simbolo della connessione tra l’artista e i suoi mecenati.

Tra le opere in esposizione un posto speciale è senz’altro occupato dal Ritratto di Maffeo Barberini, pubblicato da Roberto Longhi nel 1963 e mai esposto al pubblico fino a pochi mesi fa, dall’Ecce Homo recentemente riscoperto (2021), che torna in Italia dopo quattro secoli, e dalla prima versione della Conversione di Saulo della cappella Cerasi, difficilmente accessibile poiché conservata in una dimora privata.

Accanto al San Francesco in meditazione, al San Giovanni Battista, alla Giuditta e Oloferne e al Narciso, parte della collezione permanente delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, troviamo alcuni capolavori che “tornano a casa”: i Bari, i Musici e la Santa Caterina d’Alessandria, che Antonio Barberini acquistò nel 1628 dalla collezione del cardinal del Monte.

Il percorso, articolato in quattro sezioni, guida il pubblico alla scoperta dell’intera parabola artistica del Merisi, coprendo un arco cronologico di circa quindici anni, dall’arrivo a Roma intorno al 1595 alla morte a Porto Ercole nel 1610.

Nella prima parte, dedicata al DEBUTTO ROMANO, l’esposizione affronta gli anni dell’arrivo a Roma, verosimilmente nel 1595, e i primi passi in città, tutt’altro che semplici.

Nonostante fosse un pittore già formato – cresciuto nella bottega milanese di Simone Peterzano, allievo di Tiziano – i biografi concordano nell’affermare che Caravaggio fu inizialmente costretto a vivere di espedienti, realizzando quadri per pochi soldi. Verosimilmente a partire dall’estate dello stesso anno transitò anche nella bottega del noto e ammirato pittore Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, dal quale venne impiegato per dipingere fiori e frutti. Nonostante il rapporto tra i due si chiuda bruscamente nel giro di otto mesi, la produzione di Naturalia lascerà tracce importanti e profonde nella prima produzione caravaggesca, come è evidente nelle bellissime nature morte del Mondafrutto e del Bacchino malato, per la prima volta esposte insieme.

Alcuni fortunati incontri – con il pittore Prospero Orsi, esperto di Grottesche, e con Costantino Spada, rigattiere e mercante dei suoi primi dipinti – permisero a Caravaggio di entrare, intorno all’estate del 1597, in contatto con il suo più prestigioso committente: il raffinato ed eclettico cardinale, cultore di musica e canto, Francesco Maria del Monte, cui appartennero i Musici, la Buona Ventura e i Bari, capolavori di quella “pittura comica” che caratterizza la fase giovanile di Caravaggio, contraddistinta da un uso della luce ancora lontano dai possenti chiaroscuri della maturità. Parallelamente, Caravaggio avviò anche il rapporto con il banchiere Ottavio Costa, proprietario del bellissimo San Francesco in estasi, primo esempio di opera sacra eseguita dall’artista a Roma.

A suggellare il successo di Caravaggio nell’Urbe, nel 1600 – a un anno dalla prima commissione pubblica per la chiesa di San Luigi dei Francesi – fu l’incarico di dipingere due tavole per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo: la Crocifissione di san Pietro e la Conversione di Saulo, di cui viene ora esposta ora eccezionalmente a Palazzo Barberini la prima redazione, e che si differenzia dalla versione finale per il supporto utilizzato, una tavola di legno cipresso di grandi dimensioni (237×189 cm), molto più preziosa della tela.

Nella sezione intitolata INGAGLIARDIRE GLI OSCURI, la mostra introduce la rara produzione ritrattistica di Caravaggio, che, come dimostrano le fonti archivistiche e le stampe, dovette essere molto vasta e stimata, anche se pochissime sono le testimonianze arrivate fino a noi.

L’esposizione offre tuttavia l’occasione unica di vedere accostate per la prima volta due versioni del ritratto di Maffeo Barberini, provenienti entrambe da collezioni private. Come attesta Giulio Mancini, il pittore ha ritratto Maffeo Barberini in più di un’occasione: qui abbiamo la nota versione “Corsini”, attribuita a Caravaggio da Lionello Venturi (1912), Gianni Papi e Keith Christiansen (2010), esposta accanto a quella recentemente presentata al pubblico a oltre sessant’anni dalla sua riscoperta e attribuzione di Roberto Longhi (1963) unanimemente condivisa da tutti gli studiosi. In quest’ultimo dipinto è evidente il rivoluzionario naturalismo della pittura del Merisi, nel cui ambito il ritratto sembra aver svolto un ruolo molto importante, nonostante fosse ritenuto un genere minore.

L’artista non si limitò a ritrarre nobili prelati o illustri personaggi, ma usò, anche per i dipinti a soggetto religioso, persone appartenenti ai ceti sociali più umili, eternandone per sempre la memoria. È il caso della bellissima modella che presta la sua immagine per Marta e Maria Maddalena, Giuditta che decapita Oloferne e Santa Caterina d’Alessandria, forse identificabile con la celebre cortigiana Fillide Melandroni.

Tra questi dipinti la Santa Caterina riveste un ruolo particolarmente importante poiché a partire da esso, secondo il Bellori, biografo dell’artista, prende avvio quel modo di «ingagliardire gli oscuri» che avrebbe caratterizzato tutta la sua produzione successiva, giungendo a piena maturazione nelle imponenti tele per la cappella Contarelli ancora oggi visibili nella chiesa di San Luigi dei Francesi.

La sezione espositiva IL DRAMMA SACRO TRA ROMA E NAPOLI parte idealmente dalla prima commissione pubblica, ottenuta da Caravaggio nel 1599 grazie all’intermediazione del cardinal del Monte: le tele della cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Il ciclo dedicato a San Matteo rappresenta una vera sfida per il Merisi, che per la prima volta si confronta con quadri di historia, e costituisce anche uno spartiacque nella sua produzione, perché da questo momento si dedicherà quasi esclusivamente a temi sacri, dando avvio a quello stile tragico caratteristico della sua produzione.

In questa sezione sono esposte alcune tra le opere religiose più emblematiche del Merisi maturo all’apice del successo, che annoverava tra i suoi committenti personaggi di spicco come Ciriaco Mattei e Ottavio Costa, per i quali realizzò rispettivamente La cattura di Cristo e il San Giovanni Battista dalla collezione del The Nelson-Atkins Museum of Art (Kansas City – Missouri), quest’ultimo affiancato al dipinto con lo stesso soggetto conservato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica.

Nella tarda primavera del 1606, tuttavia, la vita del pittore subì una svolta drammatica quando, durante una partita di pallacorda, uccise Ranuccio Tomassoni. Il Merisi fu costretto a fuggire da una condanna alla pena capitale, rifugiandosi prima nei feudi laziali della famiglia Colonna, dove realizzò la Cena in Emmaus e – forse – il San Francesco in meditazione. Secondo alcuni studiosi a questi anni potrebbe risalire anche il David e Golia della Galleria Borghese, dipinto in cui, raffigurando sé stesso nei panni di Golia, l’artista mette in luce la sua esigenza di espiazione.

Pochi mesi dopo il pittore era a Napoli, città dove fu molto apprezzato e dipinse opere mirabili come l’Ecce Homo, recentemente rinvenuto in Spagna, e uno dei suoi capolavori, la Flagellazione, realizzata per la cappella di San Domenico Maggiore.

L’ultima parte della mostra, raccolta sotto il titolo FINALE DI PARTITA, affronta la fase finale della vita dell’artista: animato dal costante desiderio di tornare a Roma, sua patria d’elezione, Caravaggio lasciò Napoli e nell’estate del 1607 partì per Malta, con la speranza di entrare nell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, provando così a ottenere il perdono di Papa Paolo V Borghese. Grazie a opere come il Ritratto di cavaliere di Malta, il Merisi riuscì a ottenere il cavalierato ma, coinvolto in una rissa con un altro membro dell’Ordine, venne incarcerato. Fuggito in modo rocambolesco, Caravaggio si diresse prima in Sicilia, a Siracusa e Messina, e poi nuovamente a Napoli, dove realizzò le ultime opere, tra le quali il San Giovanni Battista della Galleria Borghese e il Martirio di Sant’Orsola, dipinto per Marcantonio Doria pochi giorni prima del suo ultimo tragico viaggio.

Nel 1610 il Merisi salpò per Roma, probabilmente dopo aver ricevuto la notizia del perdono del papa, portando con sé, su una feluca, alcuni dipinti da donare al cardinal nepote Scipione Borghese, tra cui proprio il San Giovanni Battista. Purtroppo, Caravaggio non riuscì a coronare il suo sogno di tornare, e sebbene i suoi ultimi giorni siano avvolti nel mistero, è probabile che, sbarcato a Palo, sia stato trattenuto per alcuni controlli o arrestato. Una volta rilasciato, morì sulla via di Porto Ercole, a soli trentanove anni.

Venticinquesima opera della mostra – extra moenia ma eccezionalmente visitabile in occasione della mostra – è il Giove, Nettuno e Plutone, l’unico dipinto murale eseguito da Caravaggio nel 1597 (ca) all’interno del Casino dell’Aurora, a Villa Ludovisi (Porta Pinciana) su commissione del cardinale del Monte per il soffitto del camerino in cui quest’ultimo si dilettava nell’alchimia. L’opera, raramente accessibile, raffigura infatti un’allegoria della triade alchemica di Paracelso: Giove, personificazione dello zolfo e dell’aria, Nettuno del mercurio e dell’acqua, e Plutone del sale e della terra.
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