Al via la negoziazione esclusiva con la cordata composta da Baku Steel Company e da Azerbaijan Investment Company. Intanto, però, a Potenza si è aperta l’udienza preliminare dopo l’annullamento delle sentenze nel processo tenutosi a Taranto.
Ex Ilva, al via le trattative con la cordata azera composta da Baku Steel Company e dal fondo statale Azerbaijan Investment Company. Ad annunciarlo è stato Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, che ha spiegato come l’offerta della cordata proveniente dall’Azerbaigian sia la migliore tra quelle pervenute per l’acquisizione di Acciaierie d’Italia. Intanto, però, a Potenza è ripreso anche il processo ‘Ambiente svenduto’.
I commissari straordinari di Acciaierie d’Italia e di Ilva in amministrazione straordinaria hanno richiesto al Mimit l’autorizzazione per avviare una negoziazione preferenziale con la cordata azera. L’offerta è ritenuta la migliore tra quelle giunte, in base a vari fattori come “la solidità finanziaria dei candidati, la sostenibilità industriale delle proposte e i benefici in termini di occupazione e per le comunità locali“. La decisione finale spetterà comunque al governo e solo dopo si aprirà la trattativa con i sindacati.
Stando ad alcune indiscrezioni, la cordata dell’Azerbaigian avrebbe offerto 1,1 miliardi di euro (di cui 500 milioni di valutazione del magazzino e 600 milioni per l’acquisto degli impianti) e l’offerta è stata preferita agli indiani di Jindal Steel International, gli altri principali candidati. Gli azeri avrebbero anche promesso di investire altri quattro miliardi di euro nei prossimi anni e questo avrebbe convinto i commissari straordinari a richiedere l’avvio delle trattative. Negoziazioni esclusive che però non saranno facili, anche perché si dovrà decidere se, con apposita norma, lo Stato entrerà a far parte della nuova compagine con una quota del 10% in capo a Invitalia. In quel caso, non è escluso che Jindal Steel International possa rientrare in gioco con una partecipazione.
Secondo quanto previsto dalla proposta degli azeri, il numero degli occupati scenderebbe: a regime, quelli effettivi dovrebbero essere circa 7.000, meno degli attuali 9.773 a cui vanno aggiunti gli oltre 1.700 di Ilva in amministrazione straordinaria. Il ciclo produttivo si baserebbe su un solo altoforno e due o tre forni elettrici, per una produzione massima di sei milioni di tonnellate. È già in corso, intanto, la procedura per il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), che dovrà ottenere l’ok del Ministero della Salute per la valutazione del danno sanitario.
Le indiscrezioni sui dettagli della proposta della cordata azera ovviamente preoccupano i sindacati, soprattutto sul piano dell’occupazione. “Prima dell’avvio della trattativa, diventa imprescindibile un incontro per conoscere i contenuti dell’offerta, si parla di un piano che rischia di distruggere la produzione di acciaio e di provocare migliaia di esuberi“, ha commentato Rocco Palombella, leader della Uilm. Meno critici, ma comunque desiderosi di un immediato confronto tra governo e sindacati, anche Valerio D’Alò (segretario nazionale Fim), Loris Scarpa (coordinatore nazionale siderurgia Fiom), Sasha Colautti e Francesco Rizzo (Usb).
Meno caute, e più critiche, le associazioni ambientaliste. “Al governo chiediamo massima trasparenza, si rendano noti i termini delle tre offerte globali presentati affinché i cittadini di Taranto possano verificare se è stata data priorità alla tutela dell’ambiente e della salute o se si sia solo scelto chi ha offerto di più. Nella trattativa esclusiva con gli azeri la piena e rapida decarbonizzazione deve essere l’aspetto decisivo. Altiforni e cokerie vanno sostituiti quanto prima con forni elettrici, preridotto e idrogeno” – ha spiegato Lunetta Franco, presidente di Legambiente Taranto – “Siamo preoccupati anche del possibile arrivo di una nave rigassificatrice di cui non c’è bisogno dal momento che c’è già il Tap, siamo preoccupati delle scelte fatte con l’ultimo decreto sull’ex Ilva che non sono condivisibili. Rimpinguare le casse di AdI in a.s. per continuare la produzione sottraendo alle bonifiche 400 milioni di euro è una vergogna“.
Dello stesso tenore anche Alessandro Marescotti, leader di Peacelink Taranto: “Sono molto pessimista, questa azienda dovrà fare i conti con pesanti passività e i lavoratori pagheranno il prezzo di un’operazione senza futuro in un mercato in grandissima difficoltà e con gli impianti attualmente sotto sequestro. Questa acciaieria perde qualcosa come media di 700-800 milioni l’anno. Se questa nuova società riuscirà a rimettere in carreggiata il bilancio, allora chi lo farà potrà ambire al premio Nobel per l’Economia“.
Intanto, a Potenza è ripartito il processo ‘Ambiente svenduto’ sull’inquinamento provocato dall’ex Ilva, trasferito in Basilicata dopo che la Corte d’Assise d’Appello di Taranto (sezione distaccata di Lecce) aveva annullato la sentenza di primo grado che aveva visto, nel maggio 2021, 26 condanne. Si riparte da zero, con 23 imputati, tra cui diversi nomi eccellenti: i fratelli Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’impianto, e Nichi Vendola, ex presidente della Regione Puglia.
Questa mattina, la prima questione dibattimentale si è concentrata sul principio dell’immanenza della costituzione delle parti civili: il giudice per l’udienza preliminare si è riservato di decidere sulla richiesta di alcuni avvocati di considerare valida la costituzione di parte civile del processo che era stato annullato a Taranto. I difensori delle parti offese si sono comunque ricostituiti in giudizio. L’udienza preliminare è stata riaggiornata al prossimo 4 aprile, davanti al gup di Potenza, Francesco Valente.
A Potenza c’era anche Alessandro Marescotti. “Qui in camera di consiglio per onorare la memoria delle vittime e per chiedere giustizia, insieme ad altre parti civili. Vogliamo verità e giustizia per tutte le vittime dell’inquinamento, fummo proprio noi, nel febbraio 2008, a far partire le indagini con un esposto in Procura sulla diossina” – ha spiegato il presidente di Peacelink Taranto – “Allora denunciavamo l’inquinamento da diossina riscontrato in un pezzo di pecorino prodotto con il latte di pecore che pascolavano vicino allo stabilimento Ilva. Da quel momento, è iniziato un percorso giudiziario che ha aperto un impressionante squarcio di verità su un disastro ambientale che non può e non deve essere dimenticato. La verità non cade mai in prescrizione, disastro ambientale e avvelenamento delle sostanze alimentari sono reati gravissimi che difficilmente andranno in prescrizione“.
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