Alcuni medici locali, nel tentativo di ottenere aiuti, si sono visti consegnare solo una frazione delle risorse promesse, che poi finiscono al mercato nero. Nelle zone fuori dal controllo totale della giunta, l’accesso agli aiuti è ostacolato da cavilli burocratici e permessi negati fino a quando è troppo tardi. Dopo il colpo di stato del febbraio 2021, il Myanmar è sprofondato in una guerra civile tra l’esercito e la resistenza armata formata da gruppi etnici e forze democratiche. Oggi, la giunta controlla meno del 30% del territorio, ma mantiene il pugno di ferro sulle principali città. E anche di fronte a un disastro naturale, la repressione non si ferma. Secondo l’Unione Nazionale Karen, uno dei principali gruppi ribelli, l’esercito continua a bombardare i villaggi, ignorando la tragedia umanitaria in corso. Le Nazioni Unite confermano “costanti segnalazioni di aiuti bloccati” e attacchi aerei in zone già martoriate dal sisma.Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Tom Andrews, relatore speciale dell’ONU per il Myanmar, ha denunciato che “anziché concentrarsi sul salvare vite, la giunta ne sta prendendo altre”. Bryony Lau di Human Rights Watch ha definito l’atteggiamento del regime “terrificante” e ha chiesto un immediato accesso umanitario.Anche gli Stati Uniti hanno ricordato i precedenti del regime: durante il ciclone Nargis del 2008, che uccise 140.000 persone, l’esercito rifiutò inizialmente ogni aiuto internazionale. Una strategia che, secondo l’ex ambasciatore statunitense Scot Marciel, si ripete oggi: “La loro storia dimostra che sono disposti a stare a guardare mentre la gente soffre, piuttosto che rischiare di perdere il potere”.
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