ROMA – I sopravvissuti a tortura in Italia sono migliaia, un fenomeno che riguarda le persone migranti che approdano nel nostro Paese, soprattutto dalla Libia. Studi concordanti informano che tra la popolazione migrante e rifugiata la percentuale di quanti hanno subito tortura oscilli tra il 5% e il 35%, ma in Italia tale stima è superiore perché ricomprende persone che hanno subito tortura nei Paesi di transito, in Libia e lungo la rotta balcanica. Per questo un gruppo di organizzazioni che da anni lavora all’accoglienza dei migranti ha costituito la Rete italiana per il supporto alle persone sopravvissute a tortura (Resst), nella consapevolezza che un fenomeno tanto frequente sia altrettanto spesso ignorato, col risultato di costringere le vittime a sofferenze fisiche e psicologiche che possono ostacolare la loro capacità di costruirsi una vita serena. “I sopravvissuti a tortura vivono una condizione, non una patologia, per la quale non esiste nessuna cura. Perciò non si arriva mai a guarigione completa” dichiara all’agenzia Dire Chiara Montaldo, coordinatrice medica di Medici senza frontiere, tra le realtà promotrici di Resst, che dal 2020 e di nuovo dal 2023 a Palermo lavora in collaborazione col Policlinico ‘Paolo Giaccone’.
“Tuttavia- continua Montaldo- tramite il giusto supporto, possono ritrovare la forza per riprendere in mano la loro vita. Posso confermare che dopo anni di lavoro e persone assistite, resto sempre stupira dall’incredibile resilienza che le persone sanno dimostrare”. Come nel caso di Alika, nome di fantasia di una giovane Nigeriana che, al termine del percorso di sostegno con Msf, si è resa disponibile “con entusiasmo” a dare la sua testimonianza in un video di sensibilizzazione che l’organizzazione ha diffuso nei mesi scorsi. “Quando ero in Libia- racconta la giovane- sentivo che potevo rischiare di essere uccisa in qualsiasi momento. Io e i miei compagni avevamo paura, non riuscivamo neanche a mangiare, la notte dormivamo male”. Alika è arrivata in Italia portando con sé un figlio avuto in seguito alle violenze subite. Tuttavia, assicura Montaldo, “dopo un lungo percorso è riuscita a trasformare la sua esperienza in qualcosa di positivo. Osservarla è stato commovente”. Resst è l’espressione del motto “l’unione fa la forza”: tra le realtà promotrici figurano Caritas, Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale (Ciac), Kasbah, Medici contro la tortura (Mct), Medici per i diritti umani (Medu), Naga e SaMiFo AslRoma 1, oltre a Medici senza frontiere. “Da più di 20 anni accogliamo persone che hanno subito violenze estreme e torture” prosegue Montaldo, “che, oltre ai traumi subiti attraversando il deserto o il mare, subiscono anche violenze intenzionali per mano di altre persone, in larghissima parte in Libia. Per questo ogni sopravvissuto presenta bisogni peculiari”. Persone con cicatrici nel corpo e nella mente: “I danni fisici sono i più facile da curare” dice Montaldo, “ma a questi si aggiunge il rischio di sviluppare disturbi funzionali, come per esempio l’impossibilità di camminare correttamente, oppure mutilazioni o la perdita parziale o totale della vista”.
Violenze materiali che hanno conseguenze anche invisibili, come “la distruzione della sfera psicologica, la disintegrazione della dignità e della volontà”, che, come ricorda l’esperta, “sono proprio lo scopo principale della tortura”. Esperienze che infine provocano “rendono incapace la vittima di avere nuovamente fiducia negli altri. Ecco perché assistere le vittime di tortura implica un lavoro di relazioni lungo e paziente”, che deve coinvolgere gli organismi privati “ma anche pubblici: noi crediamo- conclude la coordinatrice medica- che il sistema sanitario nazionale debba farsi carico di queste persone, nel rispetto delle linee guida emanate nel 2017 dal ministero della Salute. Purtroppo però, in tanti territori restano su carta”. á á La rete Resst tra i suoi obiettivi, non solo ha l’assistenza alle persone, ma anche attività di ricerca e la costruzione di servizi capillari sul territorio, che facilitino l’accesso ai servizi e il proseguimento del percorso a persone che, per la natura stessa della loro condizione, si trasferiscono e si muovono molto. Ne sa qualcosa il Centro immigrazione, asilo e cooperazione – Ciac che dagli anni ’90, a Parma, si occupa di tutela e accoglienza diffusa e ha sperimentato come per chi è sopravvissuto alla tortura siano fondamentali diritti, servizi ma anche relazioni sociali, protettive, di comunità, per un “riconoscimento” che sappia andare oltre l’essere “vittima”. I percorsi di “emersione” e di supporto alla riabilitazione fisica e sociale sono realizzati in stretta collaborazione con la Asl di Parma e i Comuni della Provincia, tramite una forte sinergia pubblico-privato, sanitario e sociale.
“Dal nostro osservatorio, quello di una rete capillare di sportelli cui accedono ogni anno migliaia di persone, vediamo crescere il numero di coloro che hanno subito torture”, come dichiara alla Dire Michele Rossi, direttore di Ciac. Secondo Rossi, si tratta di individui “costretti a una migrazione ‘forzatamente illegale’ da leggi nazionali e europee, e per questo oggi ancora più di ieri le persone migranti subiscono torture e trattamenti inumani e degradanti anche da carcerieri e trafficanti”. Senza canali legali e sicuri per migrare, sono le organizzazioni del traffico a realizzare “violenze sui corpi di tipo sistemico, per estorcere, ricattare, come forma di costrizione allo sfruttamento sessuale o lavorativo o anche solo per ‘controllare’ con una efferata efficienza ‘logistica’ i corpi dei migranti trafficati”. Chi sopravvive “può impiegare mesi, persino anni, prima di ricostruire la fiducia negli altri – e talvolta in sé – necessaria ad un percorso di emersione”. Ma, per accedere ai servizi, Rossi evidenzia che “possono anche passare mesi, talvolta anni, anche solo per vedere riconosciuti i propri diritti da un sistema si accoglienza aleatorio, burocratizzato, spogliato di servizi essenziali e sempre più orientato verso grandi centri, verso politiche di segregazione”.
È questo secondo Rossi uno degli elementi più allarmanti del fenomeno: “Per questi percorsi di emersione e supporto servirebbe una tempestiva garanzia dei diritti, dalla protezione giuridica all’accesso ad una adeguata accoglienza”. Le équipe multidisciplinari di professionisti – tra cui medici, psicologi, consulenti legali e mediatori – previste dalle Linee Guida del ministero della Salute ed attivi a Parma devono quindi “fare un lungo lavoro per agire su tanti diversi fronti: dai bisogni primari come mangiare e dormire al coperto in condizioni dignitose agli esami medici; dalla lingua italiana all’inserimento lavorativo; dalla tutela giuridica alle relazioni con la comunità locale: sono molte delle dimensioni che concorrono alla riabilitazione e devono e possono essere coordinate”. Da qui l’appello: “Il sistema italiano deve cambiare, perché oggi ostacola l’emersione del fenomeno e quindi l’inizio di percorsi che, invece, dovrebbe essere tempestivo”.
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