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“Gaza è sigillata da 48 giorni, Israele ha chiuso anche l’acqua”


ROMA – “A Gaza la situazione è sempre più drammatica, la Striscia è sigillata da 48 giorni, non sta entrando niente di niente. La fame ha raggiunto livelli estremi e soffriamo anche la sete, perché Israele ha chiuso l’acqua. Ogni giorno che passa tutto peggiora”. A parlare con l’agenzia Dire da Gaza è Sami Abu Omar, operatore umanitario dell’Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs), che a Gaza fornisce pasti tramite una cucina da campo e collegamenti alla rete internet gratuiti, il tutto tramite le donazioni raccolte con la campagna ‘100×100 Gaza’.

Dall’1 marzo, giorno in cui si è conclusa la prima fase del cessate il fuoco, Israele ha stabilito nuovamente la chiusura di tutti i valichi di frontiera con l’obiettivo dichiarato di fare pressioni su Hamas anche attraverso la popolazione palestinese. Le due fasi che avrebbero dovuto fare seguito all’intesa non sono mai partite. Il 18 marzo, Israele ha ripreso le operazioni militari: da allora, le autorità locali sostengono che quasi 1700 persone siano rimaste uccise, portando il bilancio dall’ottobre 2023 a oltre 51mila vittime identificate. Nell’ultimo raid odierno, come riferisce la stampa internazionale, sono morte 23 persone.

Abu Omar continua: “In un anno e mezzo, intere famiglie sono state cancellate dall’anagrafe. L’ultima, una famiglia che dormiva in una tenda in una zona militare: è stata bombardata e sono morte 10 persone: genitori e otto bambini”. Il racconto del responsabile di Acs trova conferma nell’emittente Aljazeera: ieri un raid ha riguardato una ‘zona sicura’ designata dall’esercito israeliano a Khan Younis, nel sud. L’incendio divampato nel campo profughi ha lambito velocemente la tenda di plastica e nylon che ospitava la famiglia, rendendo impossibile l’intervento dei soccorritori. “Il genocidio continua” dice Abu Omar, “non hanno mai smesso. La città di Rafah, che un tempo ospitava 350mila persone, è stata completamente rasa al suolo e cancellata”.

Questa, al confine con l’Egitto, rientrerebbe nella ‘zona cuscinetto’ che l’esercito sta creando tra Gaza e i suoi confini. Una decisione che i vertici di Tel Aviv motivano con l’urgenza di proteggere la popolazione israeliana dagli attacchi di Hamas, dopo l’aggressione del 7 ottobre 2023, in cui sono morte più di 1200 persone.

Oltre agli attacchi però, la popolazione di Gaza soffre per l’embargo a beni e servizi essenziali. Ancora ieri il ministro della Difesa, Israel Katz, ha ribadito che “A Gaza gli aiuti umanitari non entrano” perché “bloccarli è una delle principali leve di pressione su Hamas, che così non potrà usarli per strumentalizzare la popolazione”. Stamani ai giornalisti Stephanie Tremblay, portavoce del segretario generale dell’Onu, ha riferito che nella giornata di ieri, delle sei operazioni coordinate tra le Nazioni Unite e Israele per la consegna degli aiuti, solo due hanno avuto luogo: “Le restanti quattro sono state negate, inclusa una missione per recuperare carburante da Rafah, di cui c’è urgente bisogno”, ha detto.

Ancora Abu Omar, che con Acs collabora alle cucine da campo per la distribuzione di pasti alla popolazione, riferisce: “La carne non esiste più. Qualcosa è arrivato di surgelato durante la tregua”, dal 19 gennaio al 28 febbraio, “ma è stato distribuito tutto. Prima della guerra c’erano tanti begli allevamenti di pollame, bovini e ovini, ma poi lo stop alle importazioni ha messo alla fame anche loro, perché sono finite le scorte di mangimi. Chi ha ancora qualche animale da macellare- contiunua l’operatore umnitario all’agenzia Dire- arriva a venderlo all’equivalente di cento euro al chilo. Non si trovano neanche uova. Verdura e legumi hanno raggiunto costi altissimi: un chilo di pomodori può costare l’equivalente di 8 euro, un chilo di patate 10 euro, un chilo di cipolle 12 euro. Sono prezzi insostenibili per la popolazione, perché il lavoro non c’è più”.

Abu Omar spiega che “scuole, università, ministeri, uffici amministrativi sono stati quasi tutti bombardati, così come aziende agricole o imprese. Riesce a lavorare chi sta nelle strutture sanitarie”. Qui, a causa del blocco, “stanno finendo le medicine. Inoltre abbiamo poche ore di elettricità al giorno, perché funzionano solo i generatori a gasolio. Ne abbiamo fatto scorta durante la tregua, ma adesso il carburante sta finendo e dobbiamo razionarlo, soprattutto per le strutture mediche.

La linea di internet va e viene, il telefono fisso non esiste più perché i cavi sono stati distrutti, con l’80% delle case”. Negli ultimi giorni sono ripresi i colloqui per il cessate il fuoco, ma Hamas ha respinto la proposta arrivata da Israele, che chiedeva il disarmo completo del gruppo.
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