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“Il Giro d’Italia in Albania è propaganda politica neocoloniale”: la denuncia delle associazioni


ROMA – “Siamo qui, fuori dal Centro per il rimpatrio di Gjader in Albania per dire no ai Cpr ma anche denunciare la strumentalizzazione del Giro d’Italia, partito ieri da Durazzo: una manifestazione sportiva che suona come uno scambio di favori tra la premier Meloni e l’omologo Edi Rama, sulla pelle delle persone”.

Con l’agenzia Dire parla Damiano Borin, attivista dell’associazione Ya Basta di Bologna, che è parte del Network Aigainst Migrant Detention di cui fanno parte varie realtà europee tra cui Asgi, Melting Pot Eruopa, Stop Cpr Roma, Actionaid e Mediterranea Saving Humans. Ieri, per la prima volta nella sua storia, il Giro d’Italia è partito da una località esterna al territorio nazionale. Prima tappa di 164 km fino a Tirana. Una manifestazione che cade anche a pochi giorni dalle elezioni legislative che si svolgono domani in Albania.

“E’ propaganda politica dell’Italia neocoloniale che non avvantaggia in alcun modo i cittaidini albanesi” lamenta Borin, che stamani ha inscenato una protesta con altri sette attivisti – in rappresentanza di Italia e Albania – fuori dal cancello d’ingresso del Cpr di Gjader, nel nord dell’Albania, costruito con fondi italiani insieme all’hotspot di Shengjin ed entrati in funzione a ottobre scorso. Ieri, l’arrivo di un altro gruppo di migranti, che nelle intenzioni del Protocollo siglato dai governi di Roma e Tirana, dovrebbero essere rimpatriati verso i Paesi di origine.

Rispetto alle volte precedenti, “stavolta è buio completo sul numero e la nazionalità degli uomini portati qui”, denuncia Borin, che continua: “Abbiamo chiesto di poter entrare ma non ci hanno dato l’autorizzazione, così come accade sempre per gli attivisti, a differenza di parlamentari ed europarlamentari”. Una delegazione di politici insieme al Tavolo Asilo ha compiuto una nuova missione di monitoraggio a metà aprile, concludendo che il Cpr di Gjader “viola i diritti fondamentali delle persone migranti e pone gravi interrogativi sul piano della legalità costituzionale ed europea”.

Borin avverte ancora: “Sappiamo per esperienza che i Cpr sono dei lagher”, luoghi dove “finiscono in larga maggioranza persone che non hanno commesso crimini ma a cui semplicemente è scaduto il permesso di soggiorno, perché magari, pur avendo un contratto di lavoro, non hanno la casa e quindi la residenza”. Persone “ben integrate da anni che per un niente si trovano rinchiuse e a rischio ripatrio”.

Nei Cpr, prosegue l’attivista, “le persone sono esposte ad abusi fisici e mentali, in contesti di degrado, dove vengono somministrati psicofarmaci e spesso rischiano la vita. Dei cittadini sono morti nei Cpr: l’ultimo caso e di inizio maggio”.

Il riferimento è a Abel Okubor, cittadino nigeriano di 37 anni che, nella notte tra il primo e il 2 maggio, ha perso al vita nel Cpr di Brindisi, forse a causa di un infarto. Secondo Borin altra “preoccupante novità”, oltre alle ombre su numero e nazionalità degli ospiti trasferiti ieri, riguarda la costruzione di una prigione vera e proprio all’interno del perimetro del Cpr d Gjader “dove i migranti che eserciteranno resistenza passiva potrebbero essere rinchiusi per via de Dl Sicurezza”, approvato ad aprile.

L’attivista di Ya Basta continua: “Come in passato siamo riusciti, in Italia, a far chiudere dei Cpr o a bloccarne l’apertura, ad esempio a Bologna e Ferrara, ora col supporto della società civile albanese lavoriamo anche per far chiudere questo Cpr costruito fuori dai confini nazionali”. Numerosi gli scambi tra giornalisti e associazioni locali da quando, a ottobre, una prima delegazione di 200 persone è partita per Shengjin dall’Italia.

“Ci accomuna il rifiuto della logica di esternalizzare le frontiere”. Inoltre, riferisce l’attivista, “i cittadini albanesi hanno alle spalle una loro storia di migrazione: in tanti ricordano la fuga da dittatura e povertà e sanno che da quel viaggio verso l’Italia o altri paesi europei derivano tante storie di riscatto, quindi in molti percepiscono questo trattamento ‘inverso’ dei migranti come qualcosa di negativo, non lo accettano”.
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