ROMA – I giornalisti “stanno pagando un prezzo altissimo per raccontare al mondo il genocidio a Gaza: la loro stessa vita”. E questo sia perché le bombe non li risparmiano, sia perché non hanno equipaggiamenti di protezione adeguati. È la testimonianza resa da Abdul Nasser Abu Aoun e da Ahmed Jad, il primo giornalista freelance, il secondo direttore della testata palestinese Al-Ayyam, entrambi profughi in Egitto. Sono loro ad accogliere, al Cairo, la delegazione di parlamentari, eurodeputati, giornalisti ed esponenti della società civile giunti dall’Italia per la carovana solidale ‘Gaza oltre confine’, che punta a raggiungere il valico di Rafah per invocare la fine del “genocidio” e del blocco totale agli aiuti umanitari. Abu Aoun avverte: “In questi mesi i reporter hanno perso anche le attrezzature per fare il loro lavoro, strumenti trcnologici ma anche equipaggiamenti di protezione”. Si tratta di elmetti e giubbotti antiproiettile con su scritto press che, da mesi ormai “sono fabbricati a Gaza, perché, a causa del blocco, questo materiale non entra più. I reporter se li procurano per essere riconoscibili, ma sono inutili: i giubbotti sono imbottiti di semplice spugna, non fermano certo le pallottole”. Lui, cronista da 23 anni, dice che negli ultimi 19 mesi “si danno notizie degli attacchi, con la consapevolezza che in quei raid potrebbero essere rimasti uccisi familiari, amici, colleghi, oppure distrutta la loro casa o i luoghi cari”. Alla fine, “ho dovuto fare una scelta. Non avrei voluto lasciare Gaza, ma dovevo salvare mia moglie e i miei cinque figli”.
Nel conflitto, “mio padre è stato ucciso da un soldato che gli ha sparato in casa due mesi dopo il 7 ottobre”, quando Hamas attaccò Israele uccidendo oltre mille persone e facendo 240 ostaggi, da cui Israele ha avviato l’operazione su vasta scala nella Strisicia. “Mia madre invece- continua- è morta l’anno scorso per gli stenti e la fatica: aveva sopportato troppi sfollamenti forzati”. Così, “ho venduto tutto quello che avevo per pagare il viaggio e siamo venuti in Egitto. Ma mentre vi parlo, mente e anima sono a Gaza, il mio mondo è lì”. Jad invece è arrivato in Egitto da Gaza solo il mese scorso. “Non ho potuto portare con me mia moglie e i miei figli” racconta. “Ho visto mia sorella e i suoi figli morire in un raid e da allora non riesco più a piangere”. La sua analisi parte dai numeri: “A oggi sono 217 i giornalisti uccisi in 19 mesi di guerra, di cui 27 donne; quasi 400 sono feriti e 58 incarcerati e, secondo l’Onu, nelle prigioni di Israele subiscono maltrattamenti e violenze sia fisiche che sessuali”. Insomma, una categoria “sotto attacco di Israele” che, come denuncia ancora il direttore di Al-Ayyam, “il primo giorno di guerra ha bombardato la torre dove avevano sede 5 testate, in totale ha colpito 143 redazioni. È chiaro che Israele non vuole che le notizie escano”. Torna a parlare il collega Abu Aoun: “Sappiamo che parte dei politici e dei giornalisti europei ci sostengono, ma dal 7 ottobre 2023 Israele non lascia entrare i media internazionali mentre dal 2 marzo non entrano più acqua o cibo e la gente non ce la fa più”. Rivolgendosi ai parlamentari e ai giornalisti presenti, lancia un appello: “Sappiamo che parte dei politici e dei media europei ci sostengono ma non basta. È ora di azioni incisive affinché il mondo spinga Israele a fermare il genocidio e il blocco all’ingresso di aiuti umanitari”.
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