IL CAIRO (EGITTO) – “Penso che alcuni palestinesi come me abbiano smesso, a un certo punto, di condividere foto e video cruenti di morti e feriti a Gaza perché se il mondo non riesce a reagire di fronte a certe immagini, meglio dare priorità al rispetto delle vittime e delle loro famiglie”. Con l’agenzia Dire dialoga Joumana Shahine, operatrice dell’Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs Italia), ong che, prima del 7 ottobre 2023, realizzava progetti di sviluppo e ora si occupa di portare aiuti umanitari alla popolazione. Shahine oggi però è esule in Egitto: “Non avrei mai voluto lasciare la Striscia- riferisce- ma ho dovuto pensare a mia figlia”.
Lei, come migliaia di altri palestinesi, vuole raccontare al mondo cosa accade alle persone a causa dell’operazione militare che Israele conduce dall’ottobre 2023, sostenendo la necessità di sradicare l’organizzazione palestinese Hamas. Ma nel conflitto sono rimaste uccise oltre 52mila persone e quasi altre 120mila sono rimaste ferite, mentre edifici e infrastrutture sono state distrutte praticamente sulla totalità del territorio. Inoltre, dal 2 marzo scorso, dopo una pausa di sei settimane, il governo di Tel Aviv ha ripreso il blocco degli aiuti umanitari.
Iniziata con l’arrivo dei social network e gli smartphone, anche a partire dalla guerra in Siria, la pratica di realizzare e condividere foto, video, interviste e testimonianze si è diffusa, rendendo i “citizen journalists”, i “giornalisti civili”, un fenomeno globale. Da Gaza arrivano così immagini e video cruenti dei momenti degli attacchi: vittime, feriti, persone nei roghi o sotto le macerie, oppure corpi senza vita, che testimoniano degli effetti devastanti delle armi usate sugli esseri umani.
“Anche io condividevo queste immagini” ricorda l’operatrice, “per sensibilizzare e testimoniare il genocidio che subiamo, con la convinzione che il mondo, vedendole, avrebbe reagito e avrebbe fermato Israele. Ma dopo tanto tempo abbiamo realizzato che nessuno sta facendo niente per noi quindi personalmente ho deciso di smettere”. La giornalista continua: “Condivido sempre notizie di cronaca ma seleziono le immagini, preoccupandomi di più di non offendere o mancare di rispetto alle vittime e alle loro famiglie. Io davvero non so come il mondo riesca a guardare senza fare niente per noi”.Shahine ammette: “Il genocidio in effetti ci ha reso ‘citizen journalists’. Siamo diventati multitasking. E anche se è pericoloso, non ci possiamo fermare”.
Shahine evidenzia un altro aspetto: “Voglio chiarire che sono prima di tutto un’operatrice umanitaria, ma ogni tanto faccio anche la giornalista. Quando ero a Gaza, sapevo che se lo facevo, il giorno dopo avrei potuto diventare il prossimo obiettivo di un attacco da parte di Israele. È una sensazione con cui conviviamo tutti”. Quindi, “è molto pericoloso ma non è una ragione sufficiente per fermarci dal raccontare quello che avviene”.
Shahine è intervenuta al Cairo nel corso di un incontro con la delegazione di rappresentanti della rete di ong Aoi, Arci e Assopace Palestina, insieme a 11 parlamentari dell’Intergruppo per la pace tra Israele e Palestina, tre eurodeputati, 13 giornaliste e giornalisti, accademici ed esperte di diritto internazionale in viaggio verso Rafah e la Striscia di Gaza.
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