dall’inviata in Egitto Alessandra Fabbretti
AL-ARISH – “Da quasi tre mesi stiamo conservando gli aiuti umanitari che da tutto il mondo sono arrivati qui via terra, mare e anche in aereo per la popolazione di Gaza: abbiamo uno staff di 250 persone e oltre 3mila volontari, siamo pronti in qualsiasi momento”. Lotfy Gheith è il capo delle operazioni della Mezzaluna rossa egiziana e mentre parla mostra i due magazzini – uno da 30mila e il secondo da 50mila metri quadri – situati nella zona di Al-Arish, comune egiziano a pochi chilometri dal confine con la Striscia di Gaza. Qui vengono stipate le forniture che, dal 2 marzo, Israele blocca. Una decisione che “distrugge il nostro lavoro e anche il budget- spiega il responsabile- perché tenere un camion fermo costa 100 dollari al giorno. Moltiplicatelo per migliaia di mezzi. Così, abbiamo deciso di ingrandire i magazzini per conservarli noi in attesa di inviarli a Gaza”.
Gheith indica la distesa di pallet, ognuno munito di Qr code per ottenere i dati completi di ognuno – tipo di prodotto, provenienza e data di scadenza – che ha permesso di digitalizzare il sistema e fare controlli periodici. Poi ci sono le celle frigorifere per vaccini e farmaci, come l’insulina, che vanno mantenuti sempre alla stessa temperatura. Tuttavia, “prodotti come farina o latte in polvere dopo sei mesi scadono, non possiamo farci niente”. Pochi giorni fa, l’Onu ha avvertito che la carestia “è imminente in tutta la Striscia. Già 57 i bambini morti per malnutrizione.
Una parte degli 80mila metri quadrati dei magazzini sono ancora in costruzione ma, data la quantità di prodotti che continuano ad arrivare, “sono virtualmente già pieni. Al centro logistico possiamo scaricare fino a cinque camion alla volta e grazie alla collaborazione con le agenzie Onu, abbiamo la capacità di far entrare a Gaza anche mille camion al giorno”. Il doppio di quelli che sarebbero necessari ai 2 milioni e 200mila abitanti di Gaza. Domenica, Israele ha annunciato il via libera agli aiuti “per esigenze militari”, ma ieri sarebbero entrati solo cinque convogli.
Francia, Regno Unito e Canada per la prima volta dal 7 ottobre hanno minacciato sanzioni, se Tel Aviv non porrà fine all’operazione militare che si sta facendo sempre più intensa e che ha portato il bilancio dei morti a quasi 53.500. Questi tre Paesi, inoltre, hanno anche siglato una nota congiunta con altri 22 – tra cui l’Italia – in cui chiedono “la ripresa piena e immediata dell’ingresso agli aiuti” e difendono inoltre l’operato delle agenzie Onu e delle ong che in questi 19 mesi di conflitto, “hanno consegnato rischiando la vita e tra enormi difficoltà”.
In questo modo, i 25 Paesi e l’Ue bocciano il nuovo piano sugli aiuti disegnato da Israele, che prevedrebbe di estromettere le organizzazioni umanitarie, affidando la distribuzione a esercito e aziende private. Già 55 ong operative a Gaza hanno avvertito che il nuovo sistema di registrazione ha criteri troppo rigidi. Tra queste organizzazioni c’è anche Oxfam Italia. All’agenzia Dire Paolo Pezzati, portavoce dell’ong per le crisi umanitarie, ha lamentato che riconoscere questo nuovo meccanismo significa dover scegliere tra “denunciare le violazioni di Israele ai principi umanitari o accettarlo, pur di poter soccorrere le persone”. Inoltre, “da quanto sappiamo, le persone stipate a Khan Younis e Rafah dovranno entrare in campi recintati dopo previa approvazione delle autorità militari israeliane. Questo trasformerà i civili in prigionieri”.
Oxfam per questo ha partecipato a una carovana al valico di Rafah, il confine sigillato da 80 giorni, insieme a parlamentari e ong della rete Aoi, Arci e Assopace Palestina. La seconda, a distanza di 14 mesi, dallo scoppio del conflitto. “Vogliamo denunciare una complicità- spiega Pezzati- una copertura di fatto che la comunità internazionale ha dato ad una delle parti in conflitto, ovvero al governo di Israele”.
Tel Aviv, deciso a sradicare il movimento Hamas – responsabile dell’attacco del 7 ottobre 2023 in cui rimasero uccise 1200 persone e altre 240 furono prese in ostaggio – sostiene che gli aiuti umanitari finiscano per foraggiare l’organizzazione. Accuse che gli organismi umanitari hanno sempre respinto.
Ancora il responsabile della Mezzaluna rossa egiziana lamenta un ulteriore problema: anche quando Israele consentiva a Gaza di ricevere aiuti, “non ci è mai stata comunicata con chiarezza una lista di beni che possono entrare e nei magazzini abbiamo ancora migliaia di prodotti respinti”. Una soluzione era “Confrontarci con le altre agenzie onu per dedurre tali criteri”. Israele sostiene di dover rispondere alle proprie esigenze di sicurezza. Ad esempio, continua Gheith, sono vietati coltelli e forbici, ma anche sedie a rotelle, stampelle, tende da campo e ruote di ricambio perché contengono parti in metallo, oppure bombole d’ossigeno, sacchi a pelo e abiti – se di color verde militare – o anche depuratori e filtri per l’acqua (per via del carbonio), generatori ad energia solare, pannelli solari, persino un macchinario per le radiografie.
Sollecitato dalla Dire sul punto, Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool, replica: “Il diritto umanitario è un obbligo assoluto. Non vi è nessuna deroga. Israele non può usare motivazioni di sicurezza o necessità militare per bloccare l’accesso di beni essenziali. Inoltre, come potenza occupante, Israele ha anche un obbligo ulteriore di proteggere la popolazione di Gaza consentendo l’ingresso di questi beni”.
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