ROMA – “Continuerò a provarci perché succeda in futuro, ma non è una questione di vita o di morte”. Era ottobre 2024, e a Shanghai Jannik Sinner aveva scippato a Nole Djokovic l’ennesimo record, il più rotondo: 100 tornei vinti. Tra la vita e la morte sportiva c’era questo scomodo limbo in cui il più vincente tennista della storia s’era incastrato. Come trattenuto da una fune invisibile. La fune s’è spezzata a Ginevra, 19 anni dopo il primo. A Ginevra Djokovic vince l’Atp 250 battendo Hubert Hurkacz, al tie-break del terzo set. Il titolo numero 100, che fa la storia.
Nel club della tripla cifra raggiunge Jimmy Connors e Roger Federer. Sono in tre, e nessuno più. Dentro quell’elenco c’è un po’ di tutto: 24 Slam, 7 Atp Finals, 40 Masters 1000, 15 “500”, 13 miseri “250” e un oro Olimpico. 71 sul cemento, 21 sulla terra, 8 sull’erba. Dal primo, il Dutch Open 2006 di Amersfoort, un 250, fino all’ultimo. Ginevra, terra di Roger.
È una vittoria simbolica, per Djokovic. Perché vale un biglietto free per un altro giro, un’altra corsa. Hurkacz nel 2021 fu l’ultimo giocatore ad affrontare in un match ufficiale Federer (ai quarti di Wimbledon, con un doloroso 6-0 nel terzo set). E sempre lui, nel 2024, chiuse l’era romana di Rafa Nadal, lasciandogli soltanto quattro game. Djokovic invece ha una inclinazione all’immortalità incrollabile.
A 38 anni appena compiuti, ha passato più della metà della sua vita a giocare a tennis, perlopiù vincendo. Con una fatica ulteriore, l’ombra degli altri due – dio Federer e dio Nadal. Djokovic ha vinto, fino al ritiro dei rivali, in una sorta di indifferenza ovattata, applausi educati e risentimento inespresso. Spesso la folla tifava per l’altro, chiunque fosse. Perché i cyborg non piacciono a nessuno. E il sentimentalismo che attanaglia anche i più cinici è natura stessa dell’epica sportiva. L’aura dell’indistruttibilità quasi metallica che il serbo indossava da terzo incomodo l’ha tenuto in un cantuccio. Con quel suo tennis efficiente come un assemblaggio di molle e pistoni in apprendimento automatico avanzato.
Djokovic ha passato la carriera a forzare l’altrui empatia, riducendosi un giorno a New York, quando era a pochi mesi da un leggendario Grande Slam, ad un pianto tenero, quasi farsesco. Fu una riconciliazione con la gente, per una dinamica elementare: perdi, piangi, sei come tutti noi e ti ameremo per questo.
La dinamica antagonista tra Djokovic e la gente era ormai letteratura scientifica: giocava bene, e non piaceva, e quindi giocava ancora meglio, e piaceva ancora meno. Una dialettica di azione e reazione basica per niente disfunzionale, bonificata dall’età, dalla storia, dagli ulteriori traguardi raggiunto. A Parigi Djokovic s’era preso anche l’oro olimpico. Restava alla collezione di record quella ‘punessa’ un po’ fragile a tenere su l’asticella: il club dei 100 tornei. E’ entrato anche lì: Jimmy, Roger e… Nole.
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