ROMA – Date le dichiarazioni del presidente Trump degli ultimi giorni, non si può escludere un intervento degli Stati Uniti al fianco di Israele contro l’Iran ma, “a parte Netanyahu, non ci guadagnerà nessuno”. Ne è convinto Andrea Teti, professore di Scienze politiche all’Università di Salerno e autore del saggio ‘Democratisation against Democracy. How Eu Foreign Policy Fails the Middle East’.
Con l’agenzia Dire parla mentre sui quotidiani torna la notizia sulla portaerei statunitense Uss Nimitz che, invece di recarsi in Vietnam come da programma, punta verso il Medio oriente, insieme alla presunta fuga dell’Ayatollah Ali Khamenei in un bunker fuori Teheran.”La guerra avviata da Israele non risponde a nessun interesse nazionale” premette l’esperto. “Il premier Benjamin Netanyahu cerca solo di rafforzare il proprio governo e sfuggire ai processi che lo vedono imputato per corruzione; quanto agli Stati Uniti, rischiano di restare – di nuovo – impantanati in una guerra costosissima e lunga, simile a quelle già combattute in Afghanistan o Iraq”.
Il punto di partenza dell’analisi è, appunto, la democrazia e la retorica promossa da Tel Aviv e Washington sulla necessità di rovesciare il regime degli ayatollah. “Danneggiare un regime bombardando i civili è molto diverso dal sostenere le richieste di libertà e diritti che arrivano dai cittadini” premette il docente, che avverte: “Anzi: questo approccio sedimenta il consenso interno, lo abbiamo visto anche di recente, a Gaza: l’operazione lanciata da Tel Aviv dopo il 7 ottobre 2023 ha aumentato il consenso – da tempo in declino – verso Hamas sia tra i palestinesi della Striscia che nella Cisgiordania occupata”.
Secondo Teti, un cambiamento di regime a Teheran “richiederebbe anche un’operazione ‘boots on the ground'”, ossia un’invasione militare di terra, “che poi spetterebbe agli Stati Uniti e non certo a Israele”. Ad ogni modo, “una fuga di Khamenei mi stupirebbe. Israele avrà anche raggiunto la superiorità aerea e missilistica, ma manca ancora molto per sbaragliare le forze armate e di intelligence iraniane”.
Il docente analizza quindi il nodo militare: “L’Iran è certamente in una posizione difficile: a meno che non riceva sostegno da parte della Russia e/o della Cina, non può sostenere a lungo un conflitto di questa portata, e lo sa; per questo sta conducendo questo conflitto con moderazione, dal momento che non ha ancora chiuso lo stretto di Hormuz”, da cui passa un terzo del petrolio mondiale, “né attaccato posizioni statunitensi nell’area”, come ad esempio le basi militari in Iraq.D’altronde, anche in seguito ai due attacchi che Israele ha sferrato contro l’Iran a partire dall’aprile 2024, Teheran ha usato moderazione, “sparando missili solo dopo aver avvisato Tel Aviv, per dargli tutto il tempo di neutralizzarli”. Qualcosa di più simile a “un atto dovuto, più che un contrattacco militare”. Proprio questa cautela “nega a Washington ogni pretesto per un ingresso nella guerra”.D’altra parte, neanche per Israele è un’iniziativa semplice, prosegue Teti: “Gli attacchi iraniani non sono massicci quanto potrebbero, ciò nondimeno sono estremamente dispendiosi per i sistemi di difesa israeliani”. Senza contare i danni alle infrastrutture, alla vita dei civili israeliani e all’economia.
Ma allora, a chi conviene questa guerra? “A nessuno” afferma Teti, “tranne che a Netanyahu, per calcoli personali e politici”. La ratio iniziale dell’attacco, continua lo studioso, “era scongiurare la minaccia dell’arma atomica, ma sappiamo che a marzo l’intelligence statunitense aveva informato il Congresso del fatto che l’Iran non è in procinto di ottenere armamenti atomici”. Inoltre “i negoziati per spingere Teheran ad abbandonare il programma nucleare per usi bellici erano in corso, eppure Israele giovedì notte ha assassinato anche i negoziatori, un gesto inconcepibile con una reale volontà di arrivare a un accordo”.
Quanto agli Stati Uniti, “per l’ennesima volta in 25 anni, si lasciano trascinare da Israele in un conflitto in Medio Oriente, sebbene dai primi anni Duemila gli analisti alla Casa Bianca affermino che per perseguire i propri interessi, Washington deve rivolgersi all’Asia orientale, verso la Cina”.Quindi, se davvero gli Stati Uniti attaccheranno, “vedremo un ‘Iraq 2’ con la differenza che l’Iran è estremamente più grande e popoloso”.Più in generale, “il risultato sarà una grave destabilizzazione della regione, a partire dall’Iraq”, che è diventato un alleato chiave degli Stati Uniti nel controllo dei flussi petroliferi e nel contenimento dell’influenza iraniana. “Oggi Baghdad sta collaborando”, osserva il docente, “ad esempio chiudendo il proprio spazio aereo. Ma per quanto potrà tenersi fuori dal conflitto?”.
Teti torna poi al titolo del suo libro: la democrazia. Cosa fare per aiutare l’opposizione iraniana? “Ciò che andrebbe fatto per tutto Medio Oriente” replica il docente: “L’Occidente dovrebbe mettere in pratica quei principi e valori di cui parla. E invece oggi, in Iran come a Gaza”, conclude Teti, “assistiamo a costanti violazioni del diritto internazionale così come del diritto umanitario”.
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