ROMA – Nel 2014, Turki al-Jasser aveva scritto su Twitter un monito che oggi suona tragicamente profetico: “Un giornalista arabo può essere facilmente ucciso dal suo governo con il pretesto della sicurezza nazionale”. Sabato scorso, dopo sette anni di detenzione, è successo: al-Jasser è stato giustiziato a Riad. Secondo il ministero degli Interni saudita, le accuse erano di “alto tradimento” per presunti contatti con individui all’estero. L’Arabia Saudita è sempre quella di Khashoggi: uccide i giornalisti anti-regime. Stavolta alla luce del sole, e non smembrandoli in un’ambasciata.
Al-Jasser era noto come fondatore del blog “Al-Mashhad Al-Saudi”, sul quale scriveva di temi sensibili come i diritti delle donne e la questione palestinese. Ma, a quanto scrive il Guardian, a irritare le autorità saudite sarebbe stato un secondo account, anonimo, con cui denunciava la corruzione e le violazioni dei diritti umani da parte della monarchia.Secondo diverse fonti del Guardian, l’arresto nel 2018 sarebbe avvenuto dopo che le autorità avevano collegato la sua identità al profilo Twitter in questione, grazie all’accesso illecito ai dati degli utenti della piattaforma. Un’infiltrazione compiuta tra il 2014 e il 2015 da agenti sauditi, che portò nel 2022 alla condanna di un ex dipendente di Twitter negli Stati Uniti.In questi anni di detenzione, tra l’altro, al-Jasser avrebbe subito torture. Reporter Senza Frontiere dice che si tratta del primo giornalista giustiziato in Arabia Saudita sotto la guida del principe ereditario Mohammed bin Salman, e del secondo caso simile nel mondo dal 2020. Ma ovviamente è una vicenda richiama alla memoria la terribile uccisione di Jamal Khashoggi, avvenuta nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul. Quell’omicidio scatenò una reazione internazionale, il caso al-Jasser è venuto fuori nel silenzio generale. Secondo il diritto saudita, ogni esecuzione deve essere approvata dal principe ereditario o dal re in persona.
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