ROMA – “Un due tre stella!”. In Israele il tradizionale gioco che i bambini fanno cercando di non farsi beccare mentre si muovono per arrivare ad una meta si chiama “Salted fish”. E così si chiama, tra i soldati israeliani, l’attività che svolgono vicino i centri della Gaza Humanitarian Foundation dove i palestinesi affamati si accalcano sperando di portare a casa un po’ di cibo. Si chiama così perché è esattamente quello che succede: chi si muore è morto. Gli sparano. Un gioco. Poi – con cadenza quotidiana – li registrano come “incidenti”. Ma non c’è niente di accidentale: le stragi avvengono su ordine deliberato dei comandanti israeliani.
Lo racconta una lunga inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz, che ha raccolto le testimonianze anonime dei soldati sul campo.
“È un campo di sterminio”, dice uno di loro. “Dove ero di stanza, ogni giorno venivano uccise da una a cinque persone . Vengono trattate come una forza ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni, solo fuoco vivo con tutto l’immaginabile: mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Poi, una volta aperto il centro, gli spari cessano e sanno di potersi avvicinare. La nostra forma di comunicazione è il fuoco. Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo attacchiamo da distanza ravvicinata. Ma non c’è mai pericolo per noi. Non sono a conoscenza di un singolo caso di fuoco di risposta. Non c’è nemico, non ci sono armi”.
Ufficiali e riservisti parlano di ordini chiari: sparare per disperdere, uccidere non è un problema, anche se la folla non rappresenta una minaccia. “Gaza non interessa più a nessuno”, dice un altro soldato. “È diventato un posto con le sue regole. La perdita di vite umane non significa nulla”.Secondo il Ministero della Salute di Gaza, 549 persone sono state uccise e oltre 4.000 ferite vicino ai centri di soccorso dal 27 maggio. I numeri esatti attribuibili al fuoco delle IDF restano oscuri, ma il quadro che emerge è inequivocabile. “Sparare con i mortai per tenere lontana la gente affamata non è né professionale né umano”, ammette un ufficiale. “So che tra loro ci sono agenti di Hamas, ma ci sono anche persone che vogliono semplicemente ricevere aiuti”.La Gaza Humanitarian Foundation (GHF), nata a maggio come opaco risultato di una triangolazione tra Israele, evangelici americani e contractors privati, è il teatro delle stragi. I suoi centri – quattro in totale – sono sotto stretta sorveglianza dell’esercito. La distribuzione dura un’ora al giorno, ma spesso il caos inizia prima. Chi si presenta troppo presto viene “disperso” a colpi d’arma da fuoco. Come chi si attarda dopo la chiusura. Un due tre stella!Le IDF sparano anche di notte, “per segnalare che quella è una zona di combattimento”. Il generale di brigata Yehuda Vach, già noto per alcune operazioni “aggressive”, è al centro di molte testimonianze raccolte dal quotidiano. “Vach ha deciso di disperdere i raduni di palestinesi aprendo il fuoco. È la sua politica. I soldati la accettano senza fare domande”, dice un soldato. Una settimana fa, otto civili – tra cui dei ragazzini – sono stati uccisi a un incrocio mentre aspettavano i camion ONU. “Quelle persone non rappresentavano alcuna minaccia. Sono state uccise per niente”.Non solo. Un veterano racconta che “ogni appaltatore privato riceve 5.000 shekel per ogni casa che demolisce”. Operano vicino ai centri di distribuzione, attirati dai profitti. E se qualcuno ostacola il lavoro… si spara. L’orrore è diventato routine. “Ogni volta che spariamo, ci sono vittime e morti”, racconta un riservista. “Quando chiedi perché, nessuno ha una risposta. A volte solo porre la domanda infastidisce i comandanti”. Perché il messaggio, martellante, che arriva dal comando è “a Gaza non ci sono civili”. “Uccidere innocenti è stato normalizzato”, dice un altro.
Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo https://www.dire.it