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Ricostruita la vita di un neonato della preistoria: ecco cosa dice la ricerca


BOLOGNA – Sono bastati qualche pezzetto di dente e frammenti di Dna per ricostruire la vita di un neonato della Preistoria. Lo studio, multidisciplinare, è stato condotto da un team di ricercatori coordinato dall’Alma Mater di Bologna, che è riuscito a svelare la storia di questo bebè, vissuto al tempo dell’Età del Rame, partendo da resti fortemente degradati scoperti a Faenza. Durante uno scavo archeologico preventivo nella cittadina romagnola, sono infatti venuti alla luce resti di uno scheletro molto frammentato, ridotto solo a corone dentarie e piccoli frammenti ossei. Nonostante questo, grazie a tecniche laser, datazione al radiocarbonio, studi microstrutturali, analisi istologiche, genomiche e paleoproteomiche, gli scienziati sono riusciti a stimare con notevole precisione l’età alla morte del neonato (aveva 17 mesi) e a determinarne il sesso (maschile). Inoltre, sono stati individuati elementi utili in merito all’ascendenza materna.

Lo studio, pubblicato sul ‘Journal of archaeological science’, ha coinvolto ricercatori di otto tra atenei, enti e istituzioni oltre all’Alma Mater: La Sapienza di Roma; Max Planck institute for evolutionary anthropology; Università di Modena e Reggio Emilia; Goethe Universitat di Francoforte; Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University; Università del Salento; Università di Padova; Ministero della Cultura italiano.

“I resti scheletrici mal conservati sono spesso ignorati nella ricerca antropologica- spiega Owen Alexander Higgins, primo autore dello studio e assegnista di ricerca del Dipartimento di Beni culturali dell’Alma Mater- a causa della bassa qualità diagnostica degli elementi ossei che compromette significativamente la nostra capacità di formulare ipotesi accurate sulla vita degli individui del passato. La nostra ricerca, tuttavia, dimostra che anche materiali osteologici estremamente degradati possono conservare informazioni importanti se analizzati con metodologie all’avanguardia”.

Questo lavoro, conferma Stefano Benazzi, responsabile del Laboratorio di osteoarcheologia e paleoantropologia dell’Università di Bologna, “dimostra come anche resti fortemente compromessi possano restituire preziose informazioni sulle storie di vita del passato, se analizzati attraverso una strategia bioarcheologica integrata”.

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