ROMA – Negli Stati Uniti era entrato legalmente, come faceva di solito. Un piccolo problema di salute, un ritardo di tre giorni rispetto al termine del soggiorno, e poi: cento giorni dietro le sbarre. È la storia surreale (raccontata dal Guardian) di Thomas, 35 anni, ingegnere informatico irlandese e padre di tre figli, travolto da un sistema che negli ultimi anni ha trasformato le dogane americane in una rete a strascico.
Lo scorso autunno, Thomas era atterrato in West Virginia per far visita alla compagna. Aveva viaggiato spesso negli Stati Uniti, sempre senza problemi, grazie al programma Visa Waiver. Il rientro era previsto per dicembre, ma un serio infortunio al polpaccio, documentato da un medico, lo costringe a posticipare. È l’8 dicembre, scadenza dell’autorizzazione. Thomas è ancora lì. Tre giorni dopo, l’incontro con la polizia diventa il suo incubo: viene arrestato e finisce sotto la custodia dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice).
“Nessuno è al sicuro dal sistema se ci viene coinvolto”, racconta Thomas al Guardian. Dice di non aver mai opposto resistenza. Il 17 dicembre firma un modulo in cui accetta l’espulsione. Ma invece di un rapido volo di ritorno, viene inghiottito dal labirinto burocratico e punitivo dell’Ice. Viene spostato in tre diverse strutture, inclusa una prigione federale per imputati penali ad Atlanta, pur non avendo commesso reati. Tutto questo mentre l’amministrazione Trump moltiplica i raid e i detenuti vengono sparpagliati anche in carceri del Bureau of Prisons (BoP).
“Pensavo di tornare finalmente a casa”, e invece no: ammanettato a polsi, vita e caviglie, viene trasferito nella struttura BoP di Atlanta. “Siamo stati trattati in modo meno umano”, denuncia. Materassi sporchi, topi, mutande usate e strappate, cibo immangiabile e accesso limitato al bagno. Per non parlare del silenzio totale sul suo caso: “Il personale non sapeva perché fossimo lì e ci trattava come detenuti penali”. Ai suoi figli, non riusciva nemmeno a telefonare: nessuna linea internazionale disponibile.
“Sembra assolutamente assurdo che trattengano qualcuno per tre mesi perché ha superato la scadenza del visto per motivi medici”, commenta Sirine Shebaya, direttrice del National Immigration Project. “Una detenzione punitiva del tutto incomprensibile”.
Secondo gli esperti, il caso Thomas è tutt’altro che isolato. I dati parlano di un aumento degli arresti anche tra turisti provenienti da paesi “amici” come Australia, Canada, Germania e Regno Unito.
A marzo, finalmente, Thomas viene rispedito in Irlanda. Due agenti armati lo scortano all’aeroporto. Nessuna spiegazione, solo una certezza: gli è vietato rientrare negli Stati Uniti per dieci anni. “Non so come ho fatto a sopravvivere. Questo sarà un peso per tutta la vita”.
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