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Truppe internazionali a Gaza? Ecco chi può partecipare secondo il gen. Cuzzelli

(Adnkronos) – Gli Stati Uniti hanno fatto circolare una bozza di risoluzione che il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe discutere nei prossimi giorni: al centro, la creazione di una forza internazionale di sicurezza (Isf) a Gaza, con mandato almeno biennale e la possibilità di estensione fino al 2027. La forza – definita dagli Stati Uniti come “di enforcement e non di peacekeeping” secondo Axios – avrebbe il compito di garantire la sicurezza nella Striscia, disarmare Hamas, stabilizzare i confini con Israele ed Egitto e addestrare una nuova polizia palestinese. A presiederne il coordinamento politico sarebbe la cosiddetta “Board of Peace”, un organismo transitorio che lo stesso Donald Trump intende presiedere. Tra i paesi pronti a contribuire truppe, sempre secondo le indiscrezioni del media americano, ci sarebbero Indonesia, Azerbaigian, Egitto e Turchia. 

L’Adnkronos ne ha parlato con Giorgio Cuzzelli, docente di sicurezza e studi strategici alla Lumsa di Roma e generale degli alpini in congedo. 

Generale, partiamo dai termini: che differenza c’è tra una forza di intervento e una di peacekeeping? E che cosa si sa, oggi, di questo contingente per Gaza?
 

“Pochissimo. Esaminiamo ciò che è noto: il piano di pace prevede una ventina di passaggi successivi, ciascuno dei quali presuppone il consenso di Israele, di Hamas e l’intervento di terzi, in primis gli Stati Uniti. Ma di questa forza di interposizione non conosciamo né il mandato politico né quello militare, e dunque neppure le regole di ingaggio. Dovrebbe garantire sicurezza sul territorio e permettere a una commissione di transizione di governare la Striscia, ma tutto resta ipotetico. Se davvero Washington porterà la questione al Consiglio di sicurezza, solo una risoluzione Onu potrà definire se si tratterà di peacekeeping – fondato sul consenso, la neutralità e l’uso limitato della forza, solo per l’autodifesa – o di una forza d’imposizione, espressione della volontà americana. Ma al momento è tutto da chiarire”. 

Si parla di un contingente con paesi come Egitto, Turchia, Azerbaigian. Quanto è realistico?
 

«Non molto. La Turchia, pur offrendosi, è sgradita a Israele, che non vuole ex potenze imperiali in Palestina né ingerenze di Ankara in un’area cruciale per la sua sicurezza. Gli Stati del Golfo non hanno la capacità militare di reggere una simile missione. Gli egiziani sì, ma difficilmente vorranno farsi carico di un compito così ingrato, colpendo Hamas per conto di Stati Uniti e Israele. Resta, paradossalmente, solo il Pakistan: unica potenza nucleare islamica, sunnita, con esperienza nelle operazioni Onu e che avrebbe bisogno della legittimazione di Washington. I pachistani potrebbero essere gli unici a disporre della forza per un ruolo di primo piano. Non a caso il capo di Stato maggiore dell’esercito ha fatto un giro nell’area…” 

E un’eventuale partecipazione occidentale, magari italiana?
 

“Sarebbe più un rischio che un’opportunità. Israele non vuole soldati occidentali sul campo, Hamas ovviamente neppure, e nei Paesi arabi l’accusa di neocolonialismo è sempre in agguato. L’unica eccezione potrebbero essere i Paesi già presenti in Libano, ma solo sotto un chiaro ombrello americano. Senza una cornice politica garantita dagli Stati Uniti – o dalle Nazioni Unite, che è la posizione italiana – nessuno si assumerà il rischio di impegnare i propri soldati in una missione dai contorni incerti. Basti ricordare come nasce, e come (non) evolve Unifil: formalmente doveva sostenere il disarmo di Hezbollah, ma non ne ha mai avuto né i mezzi né il mandato. E negli anni dei caschi blu, fino al post-7 ottobre, la milizia libanese è diventata più potente che mai”. 

Quindi rischiamo un nuovo caso Unifil anche a Gaza?
 

“Assolutamente sì, se il mandato non sarà chiarissimo. E c’è un problema ulteriore: qui non parliamo di un avversario potenziale come Hezbollah, ma di un nemico attivo, Hamas, che non ha alcuna intenzione di disarmarsi o di rinunciare al controllo della Striscia. Senza la sua resa formale, nessuna forza di pace potrà garantire stabilità o sicurezza. Il piano americano si regge su un equilibrio fragilissimo: cessate il fuoco, disarmo di Hamas, intervento di interposizione, avvio della ricostruzione. Ma se salta un passaggio, salta tutto”. 

Qatarini e sauditi hanno forzato la mano di Hamas per firmare l’accordo di Trump, e la Lega araba ha dichiarato che il futuro di Gaza non includerà il movimento terroristico. È un segnale di rottura?
 

“È un passo avanti, ma serve coerenza. Nella narrativa di molti paesi islamici, Hamas non è un gruppo terroristico ma un simbolo di resistenza nazionale. Le monarchie del Golfo e i paesi arabi moderati dovranno reggere la pressione delle proprie opinioni pubbliche. Il vero nodo è questo: come può un paese musulmano “colpire” chi, nel mondo arabo, è percepito come un martire dell’indipendenza palestinese?” 

Realisticamente: questa forza internazionale vedrà mai la luce?
 

“Washington spingerà per approvare la risoluzione. Ma con chi, e con quali regole, non lo sappiamo. Sappiamo che ci sono militari americani già in Israele, e che si parla di gennaio per un possibile dispiegamento. Ma finché non ci sarà un mandato politico chiaro e condiviso, è tutto un pour parler. Senza chiarezza sui compiti e sulle regole d’ingaggio, anche la più potente delle forze rischia di fallire”. (di Giorgio Rutelli) 

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