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Offese social, rischio diffamazione anche senza fare nomi

Offese social, rischio diffamazione anche senza fare nomi. La tentazione di sfogarsi sui social per un presunto torto subito è grande, ma molto pericolosa anche se non si fanno nomi. Sopratutto se nel liberarsi di qualche sassolino fastidioso si forniscono dati e informazioni che possono rendere riconoscibile l’oggetto del disappunto.

Offese social, rischio diffamazione anche senza fare nomi

Lo sa bene una donna che aveva pubblicato su Facebook la foto di un intermediario immobiliare definendolo “ladro”. Sul caso è intervenuta la Cassazione che con la sentenza 14345/24 dell’8 aprile 2024 ha ribadito come la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso i social possa essere considerato diffamatorio anche senza specificare nome e cognome.

Il riferimento di legge è al terzo comma dell’art. 595 del Codice Penale. Si ipotizza la diffamazione quando si offende la reputazione di qualcuno comunicando con più persone. Le cose peggiorano se l’offesa viene fatta mezzo stampa o con qualsiasi altro “mezzo di pubblicità” ovvero Internet, Facebook, X. Canali social in grado potenzialmente di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Nel caso in esame le foto pubblicate dalla signora sulla bacheca Facebook rendevano la persona riconoscibile anche senza citare il nome. La scritta offensiva e la possibilità di individuare il soggetto a cui era riferita ha fatto sì che la sentenza concordasse con la decisione dei giudici di merito. Nel post corredato di immagini, la vittima era infatti sicuramente individuabile.

I precedenti

Non è la prima volta che la Cassazione è chiamata ad esprimersi su un caso di offese via social a persone senza riportare il nome. E’ accaduto nel 2022 quando gli Ermellini hanno respinto il ricorso di una donna che aveva scritto su Facebook pesanti offese a una conoscente, definendola “nana” per la bassa statura.

Anche in quel caso la sentenza evidenziò che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook “integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata ‘con qualsiasi altro mezzo di pubblicità’ diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone”.

Secondo la Suprema Corte le offese social e i dettagli anche in virtù del contesto territoriale dove vivevano imputati e parte lesa, un piccolo centro, permettevano di individuare la vittima. Tanto è vero che un amico della persona offesa aveva subito capito di chi si stesse parlando sulla bacheca Facebook.

Leggi anche: Omicidio Willy, Cassazione: appello bis per i fratelli Bianchi su attenuanti generiche

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