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Roma

Ottant’anni fa ‘’Civitavecchia ritorna alla vita’’

CIVITAVECCHIA – È il titolo di un articolo in prima pagina su “Il Giornale del Mattino. Quotidiano di informazioni” del 1 aprile 1945, a firma di Alfredo Orecchio (1915-2001), giornalista e scrittore siciliano. L’occasione dell’articolo è una visita in città dei ministri Meuccio Ruini, ai Lavori Pubblici, e l’ammiraglio Raffaele De Courten, alla Marina, accompagnati dal generale Mac Kinley, vicepresidente della Commissione alleata, sezione economia, dal prefetto di Roma Giovanni Persico e da altri funzionari italiani ed alleati. L’inviato speciale esordisce descrivendo il sindaco di Civitavecchia, Pietro Scala: “Il sindaco di questa città è un socialista macilento, caparbio, di poche parole. Civitavecchia deve essere per lui, una grande e dolorosa ossessione. Parlando del suo paese – poco fa, tra le macerie e gli scafi muschiati della marina – egli era colto da un giovanile e quasi innocente rossore. Tuttavia è un uomo sui cinquant’anni, carico di esperienza, già consumato da tante inutili guerre e sterminazioni. Avrà figli, forse scalzi, forse costretti tutti insieme tra quattro ruderi, dentro una baracca che non ha resistito all’inverno; avrà figli e pensieri preoccupanti per l’avvenire; ma non pare stanco e nemmeno deluso”. Poi il giornalista passa a descrivere la città o meglio quello che ne rimane dopo i bombardamenti: “La sua città è, in massima parte, rasa al suolo come un bastimento dopo il monsone. I palazzi, i monumenti di Michelangelo, le vetuste muraglie di Urbano VIII, tutto la guerra ha colato a picco: in mezzo ad amici morti, a consuetudini frantumate, ad antichi propositi, sciolti all’improvviso e dispersi”. I ministri e il loro seguito girano per la città che offre loro uno spettacolo desolante e luttuoso: “Le strade trovano a stento un varco tra le breccie enormi. Il ricovero di via Mazzini è oggi un grande e confuso ossario su cui campeggia timidamente un’esile croce di legno. In quel ricovero restarono, senza fiato, senza neppure l’estrema parola di consenso alla morte, cento e più paesani: uomini onesti, madri, ragazzi”. Dal centro una volta abitato e pieno di vita, i visitatori sono portati al porto, ciò che più interessa: “Il porto, visto dall’alto della rotabile, quando si devia per raggiungerlo a valle, scopre una fluida e cinerognola prateria, dove le prue dei piroscafi sfracellati si frammischiano a mostruosi scafandri, a relitti coperti di ruggine, e anche alle nuove cale, ai primi pontili ricostruiti. Qua giù è una confusione che sa di cimiteri subacquei, di gigantesche battaglie, di una lunga e ben sopportata battaglia”. Nello scalo cittadino, l’inviato venuto da Roma incontra i pescatori che hanno ripreso l’attività: “Sulla banchina riposano i pescatori. Più tardi, tra giorno e notte, costoro raccoglieranno le vecchie reti, gli attrezzi di un tirchio e sudato guadagno, saliranno nelle poche barche rimaste; e poi salperanno sulla consueta scia della luna, in direzione delle loro testarde speranze. Adesso rammendano a capo chino. Abbiamo parlato con loro, tra le macerie e i pontili, vicino al molo del Lazzaretto”. Alfredo Orecchio gli chiede come va la vita, se sono contenti che finalmente da gennaio si lavora, che tanti disoccupati (1500) hanno trovato lavoro nel porto, che Civitavecchia e il suo porto sono ritornati alla vita, alla frenesia del lavoro. Il pescatore, di nome Mariano, padre di tre figli, di cui uno morto in guerra, risponde: “Certo qui non si sciala; ma quel che conta è la volontà. E poi l’aria libera è sempre aria fina”.

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