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Deportato per errore tra le gang in una prigione di El Salvador: Trump e Bukele dicono che lo lasceranno lì. E se la ridono


ROMA – La cartolina dei nuovi Stati Uniti di Trump arriva da un carcere di massima sicurezza di El Salvador. La manda al mondo, tipo i desueti messaggi in bottiglia, Kilmar Armando Abrego Garcia, cittadino salvadoregno residente nel Maryland. Padre di tre figli, deportato per un “errore amministrativo” (hanno interpretato male un tatuaggio, ma “errore amministrativo” suona meglio). La Corte Suprema ha ordinato al governo di “facilitare” il suo rientro negli Stati Uniti. Di riportarlo a casa. Trump e l’autoproclamato “dittatore più cool del mondo” Nayib Bukele, il presidente di El Salvador, hanno risposto con una scrollata di spalle e una battuta. Letteralmente.

Tra sorrisi a comando e prigioni extraterritoriali, lunedì si è consumata l’ennesima farsa sull’altare del nuovo ordine MAGA. “Certo che non lo farò”, ha risposto Bukele ai giornalisti, riferendosi alla possibilità di rimpatriare Abrego. Accanto a lui, Trump annuiva, compiaciuto, in mezzo ai suoi fedelissimi – Stephen Miller, l’architetto delle deportazioni, e Pam Bondi, procuratrice generale, entrambi impegnati a dipingere Abrego come un membro della MS-13. La legalità in questa fase storica degli Stati Uniti è ormai un fastidio da gestire con creatività. Il Dipartimento di Giustizia ha ignorato scadenze giudiziarie, ridotto le sentenze della Corte a “suggerimenti”, e riesumato perfino una legge del 1798 – l’Alien Enemies Act – per giustificare deportazioni lampo verso paesi amici.Nel frattempo, Abrego marcisce nel famigerato CECOT, il supercarcere-simbolo del pugno di ferro bukeliano, quello con le celle sovraffollate e il curriculum da film distopico. “È vivo e al sicuro”, garantisce l’ambasciata americana. Ma resta lì. La moglie, Jennifer Vasquez Sura, parla di “giochi politici sulla pelle di mio marito”.

Trump non si ferma, infatti. Riflette, a voce alta, sulla possibilità di spedire delinquenti americani nelle galere centroamericane. “Se sono violenti, perché no?”, chiosa. E Bukele sorride, compiaciuto: ha aperto le porte delle sue prigioni e guadagnato punti nel club esclusivo degli uomini forti. L’amministrazione Biden lo evitava come un’influenza intestinale. Trump, invece, lo abbraccia come un vecchio amico.Il caso Abrego diventa così simbolo della “giustizia liquida” trumpiana: tribunali ignorati, ordini disattesi, potere esecutivo brandito come un manganello. Il professore Stephen Vladeck la chiama “crisi dello stato di diritto”. Tradotto: se possono farlo a lui, possono farlo a chiunque.Le deportazioni continuano. Dieci nuovi presunti membri di una gang sono atterrati a San Salvador lo scorso weekend. Nessuno sa con certezza chi siano, né se abbiano mai commesso un crimine. Basta un tatuaggio sospetto o una felpa sbagliata per meritarsi l’esilio in un carcere da incubo.Però Bukele, in piena sospensione dello stato di diritto, fa il pieno di consensi. E Trump si costruisce un’immagine da duro copiando lo script autoritario del suo amico centroamericano. Tra i due, invisibile, resta Kilmar Abrego Garcia. Una cartolina dall’inferno.
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