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Primo maggio festa amara: aumentano i lavoratori, non le buste paga


ROMA – Il numero dei lavoratori cresce, ma se il tuo lavoro non ti dà il necessario per vivere con dignità che lavoro è? Basta leggere le tante storie personali sui siti dei quotidiani o farsi un giro sulla rete e si scopre una realtà ben diversa dalle narrazioni politiche, di chi governa oggi e di chi governava ieri e oggi sta all’opposizione. Ogni mese chi ci comanda mostra con orgoglio i dati Istat con l’aumento dei contratti di lavoro. Dall’opposizione si commenta che le cose non stanno così. E comunque si può dire che accanto a quelle cifre ufficiali crescono a ritmo preoccupante le occupazioni povere, contrattualizzate sì ma con buste paga che a stento fanno arrivare al 21 del mese, come cantava Lucio Battisti.

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha denunciato la questione: in Italia i salari sono troppo bassi, le famiglie non ce la fanno a tirare avanti. La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con un videomessaggio dice invece che “…i salari reali crescono in controtendenza rispetto a quello che accadeva nel passato… tra il 2013 e il 2022, con i precedenti governi, nel resto d’Europa il potere d’acquisto dei salari aumentava del 2,5%, mentre in Italia diminuiva del 2%. Da ottobre 2023 la tendenza è cambiata e le famiglie stanno progressivamente recuperando il loro potere d’acquisto con una dinamica dei salari che è migliore, e non peggiore, rispetto a quella del resto d’Europa. C’è chiaramente ancora molto molto da fare però i numeri che alla fine raccontano la realtà sono incoraggianti”. Ma allora perché prevale la preoccupazione? Perché i sondaggi non registrano questo cambiamento di clima?

Se spostiamo lo sguardo su problemi sicuramente collegati al tema, troviamo il calo ogni anno sempre più preoccupante delle nascite. Vero che può incidere anche la diversa visione della vita dei giovani, ma sicuramente pesa anche il fatto che mettere su famiglia costa e se non si hanno stipendi sicuri è più difficile fare questa scelta. Anche i tanti giovani, molte volte con certificata professionalità, se ne vanno all’estero perché lì trovano il giusto riconoscimento. E mi fermo qui, ma solo da questi due esempi si capisce il dramma del nostro Paese: con sempre più anziani che nel tempo avranno bisogno di più risorse; sempre meno capitale umano, quello necessario a garantire l’equilibrio del sistema.

La politica, a qualsiasi livello, dovrebbe aggiornare e adattare le risposte ai problemi nuovi che si presentano. Perché i dati Istat, oltre al successo dei nuovi contratti, registrano pure che nel 2025 ben 11 milioni di persone vivono in famiglie con un reddito inferiore ai 12mila euro l’anno e che la quota di popolazione a rischio povertà è salita al 23,1% dal 22,8% del 2023.

Che fare? A questo proposito mi sembra molto interessante la proposta del giuslavorista Ciro Cafiero, pubblicata sulle pagine di Comunità di connessioni: “…ad imporsi come soluzione – scrive Cafiero- è il ripensamento del sistema degli incentivi retributivi alla luce del costo della vita sui territori. Niente gabbie salariali ma incentivare le tante imprese che desiderano contribuire al pagamento degli affitti, delle bollette, dei servizi sostenuti dai lavoratori secondo massimali di spesa soggetti a detassazione e decontribuzione”.

Al di là del problema della qualità del lavoro, che si misura prima di tutto con la garanzia di una vita degna, occorre tener presente anche il grande sconvolgimento in atto con lo smantellamento dell’ordine e della cittadinanza sociale prima imperniato proprio sul lavoro. Lavoro che nel corso degli anni diventando sempre più precario e sempre più frammentato ha messo in crisi e distrutto le diverse identità. Nel mondo i grandi (e pochi) stramiliardari di oggi lo dicono senza vergogna e ogni volta che possono: abbiamo vinto noi. Rispetto a chi con la propria forza lavoro garantisce le loro ricchezze, questi hanno perso potere mentre quelli hanno recuperato alla grande privilegi e profitti. Il lavoro e chi ogni giorno lo svolge, come sottolineano studiosi del campo come Luciano Gallino, “…una classe mai stata così così ampia a livello globale e sempre meno bianca e connotata al maschile, è stata ridotta nuovamente a merce da usare solo quando serve. E quindi deve essere flessibile, adattabile alle esigenze del mercato e della produzione”.

Insomma, è il lavoratore o la lavoratrice che deve rendersi occupabile. Ma non tutto sta andando in direzione di questi ‘lor signori’. Perché se anche il lavoro è mera ‘merce’ questa, come sottolinea Colin Crouch, “ha bisogno di riprodurre e sostenere se stessa e di consumare. Ha bisogno di risorse anche nei periodi in cui non è richiesta. Se cessa di consumare, provoca recessioni. Quando si arrabbia, scoppiano disordini. Più gli imprenditori insistono sul lavoro flessibile, più renderanno difficile ai lavoratori raggiungere la stabilità che è richiesta fuori dal lavoro”.

Ecco il tema cruciale di oggi, con il lavoro che si deve misurare con l’introduzione dell’Intelligenza artificiale nei processi produttivi. Affinché il lavoro umano resti centrale e non diventi obsoleto né superfluo bisogna prima tener presente che le nuove tecnologie, come sottolinea Eloisa Betti, ricercatrice a tempo determinato nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Padova, “non sono neutre e oggettive ma sono frutto delle scelte di chi le progetta e le finanzia, influenzate dalle teorie dominanti che puntano generalmente alla massimizzazione del profitto e alla saturazione del tempo di lavoro dell’essere umano”. Quindi, se vogliamo che il lavoro rimanga al centro come “attività fondamentale, la transizione tecnologica deve essere governata con un ruolo attivo delle Istituzioni e dei sindacati”. Questo è il tema, e sperando che non si decida diversamente ricordiamo il saggio Stanislaw Jerzy Lec, quando ammoniva così: “Non si deve cominciare a risparmiare diminuendo la quantità di buon senso”.
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