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Il fantastico 4: il Napoli ha vinto lo scudetto


NAPOLI – Nessun Cagliari “fatal”, nessun diluvio come a Perugia, il “Maradonazo” era solo un incubo preventivo. E’ scudetto, il “fantastico 4” del Napoli. All’ultima giornata. In volata, con uno spasmo del suo supereroe: Scott McTominay. Una sforbiciata a tagliare ansia, scaramanzia, tremori, fatica e Inter di sponda sul Cagliari. E poi con il sigillo, la seconda firma notarile di Lukaku, in sfondamento.2-0 al Cagliari già salvo, tanto bastava. Inter 2-0 a Como, e non sarebbe comunque bastato. Come da libretto d’istruzioni di Antonio Conte, “se l’è preso”. C’è il bollino dell’aritmetica, ora. La benedetta fumata azzurra.

Qualcuno, in ansia commerciale, aveva ricacciato dentro i magazzini le rabberciate magliette scudetto. Quelle col “4” mal-cucito sulle rimanenze del terzo titolo. Le sciarpe, le bandiere sono rispuntate timidamente in solo mattinata. Le bancarelle delle edicole allestite con pudicizia, quasi timore. Perché un gol a fil di lama – quello del 2-2 del Genoa alla terzultima giornata – e poi i patemi della penultima (con un rigore negato dal Var al minuto 96 di Parma-Napoli) avevano spento le celebrazioni prima ancora che partissero. L’attesa – il tormento – è durata un’altra settimana di riluttanza.

Arriva come uno sbuffo, questo scudetto. Non è mica la cavalcata della squadra di Spalletti, che pareva eterea, quasi un’allucinazione collettiva. La città bendata, coi fascioni soffiati dal vento a sbattere contro i palazzi. I fili tirati da un condominio a quello dirimpetto. I santini di Osimhen e Kvaratskhelia al posto dei panni stesi ad asciugare. E i sagomati di cartone 1:1. Quella è un’eco lontana. Un plastico. Due anni fa lo scudetto montò come una panna, e trovò i napoletani estenuati dalla festa precoce, dai preliminari eccessivi. Questa è una liberazione, perché quella grammatica era fuori scala.

Il campionato si prende dunque a quota 82, lasciando il cruccio e l’impiccio della Champions (un fastidio da 140 milioni di euro) all’Inter. Era dai tempi del triplete di Mourinho che la marea non restava così bassa. Con la statistica dei gol segnati mai così asfittica da quando il campionato è tornato a 20 squadre. La Serie A del 2025 può raccontarsi minimalista, senza iperboli e superlativi. Operaia, si diceva una volta.Il quarto è il primo scudetto adulto del Napoli. Dopo i due di Maradona e quello atteso religiosamente per una vita (33 anni). Questo è sudato, sofferto, strappato. Di corto muso, direbbe uno che forse – chissà – abiterà quella panchina tra qualche mese. Un capolavoro di spigoli, problemi, resistenze. Con la faccia dolorosa di Antonio Conte. Con le sue movenze elettriche, le convulsioni. Gli stenti di una stagione a imbuto, campionato e basta dopo i guai della passata. Primi sì, ma niente romanticismi. Due anni fa era poesia, il Napoli di Conte è la sua versione in prosa.

Ha vinto una squadra rimasta attaccata alle opportunità, con maturità ed equilibrio. Fino allo psicodramma finale. Ha assorbito tutte le asperità del cammino: le fisiologiche distrazioni dei rivali, il futuro sospeso di Conte, l’addio a Kvara senza tappare il buco (Okafor, poveretto, poteva diventare sinonimo di autosabotaggio sportivo, oltraggio al pudore). Invece ora, e soltanto ora, il Napoli può sedersi al tavolo di chi vince senza eccezionalità: due scudetti in tre anni sono una routine da Juve, Inter, Milan. Fuori dal triangolo del calcio industriale nessun’altra squadra italiana c’era mai riuscita: il Grande Torino o il Bologna ante-guerra, certo. Ma era un altro mondo, quello. Sono passati 80 anni. Il Napoli non è più un romanzo di formazione.

In attesa che ognuno se lo intesti a suo uso e consumo – è più dell’allenatore o di De Laurentiis? Di Lukaku o di McTominay? Di entrambi, di tutti – il Napoli sfata anche un mito statistico: ventidue degli ultimi ventitré scudetti, dodici consecutivi dal 2013, se li era presi una squadra che l’anno prima era andata almeno a podio. La Juve di Conte, annata 2012, ci arrivò depressa da un settimo posto. E’ una firma, quella di Conte. Sullo sporco lavoro che qualcuno – a quanto pare, sempre lui – deve accollarsi. Conte è un feticista delle ceneri, uno spazzacamino. Si auto-esalta nell’impresa. “Sono uno specialista della vittoria, ma anche delle sconfitte. E’ grazie alle sconfitte che sono diventato così duro”. E’ il suo lascito.E’ venerdì, dunque, il dì di festa. La gente scivola in strada lenta, implacabile. Un po’ sorniona, quasi come Ottavio Bianchi che la sera del primo scudetto se ne stava in pigiama quando Ferlaino bussò alla porta: che fai lì Otta’, scendi, andiamo a festeggiare. Fuori dalla “zona blu” gli scooter, le auto, i clacson. Dentro, la processione a piedi. Ma stavolta c’è meno stupore, la vittoria ad anni alterni è un ritmo circadiano: non c’è sospensione della realtà, magari è questa la nuova realtà. Basta frodi nostalgiche, i ricordi patinati degli anni 80. Il quarto scudetto è uno scatto di carriera, è un “another day at the office”: un lavoro straordinario.

Il Napoli di Conte ha spezzato con la ferocia la catena di montaggio a ingranaggi perfetti a cui i tifosi s’erano rassegnati per ambire a vincere. S’è curato le ferite (alcune autoinflitte), si è perdonato gli errori e le pause. Ha fatto di necessità virtù. Realismo magico. “Amma faticà”, disse quando arrivò, Conte. E mo’, c’amma fa? “Festa. Ora dobbiamo festeggiare”. Sabato, domenica e lunedì. Il ragù ha eduardianamente “peppiato” abbastanza.
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