NAPOLI – “Molte delle ricerche che ho fatto consistono in interviste approfondite e quindi ho potuto ascoltare di prima mano l’esperienza drammatica di queste donne. Poi, nel mio lavoro di ricercatrice ho cercato di ricostruire anche il percorso della Sap, perché questo percorso è drammatico nelle sue conseguenze ma è molto interessante per capire come un una fake science prende posto ed è molto difficile da scalzare”.
Lo afferma alla Dire Patrizia Romito, dell’università degli Studi di Trieste, tra le promotrici della campagna contro l’uso della Pas/alienazione parentale nei tribunali lanciata da Protocollo Napoli. Campagna che definisce “ottima” perché questa questione “in Italia come negli altri paesi del mondo occidentale è drammatica perché attraverso questo costrutto, che poi si chiama adesso in altri nomi, è multiforme, non si ascolta la voce di donne e bambini vittime di violenza”.
“Richard Gardner – spiega – ha elaborato questo concetto negli anni ’80 negli Stati Uniti, anni in cui le leggi sul diritto di famiglia in tutto il mondo occidentale cambiano, dando maggiori diritti di autonomia alle madri. Quindi passiamo da un modello di famiglia patriarcale, in cui i padri hanno tutto il potere sulla loro compagna, sulla moglie, sui figli, a un modello egualitario in cui una donna può decidere di divorziare e non perde automaticamente i figli come succedeva negli anni ’70 anche in Italia per come era organizzato il diritto di famiglia. Naturalmente questo è un attacco molto forte alla società patriarcale, ai privilegi dei padri come figura sociale: in qualche modo il costrutto dell’alienazione parentale è una reazione a questa situazione”.
Tutto ciò, per Romito, “spiega perché in tutti i decenni che abbiamo alle spalle risorge come l’araba fenice: è stata criticata sul piano scientifico, le organizzazioni internazionali hanno detto che non bisogna utilizzarla, molte organizzazioni professioniste si sono schierate contro, eppure continua a rinascere. Prima si parlava di sindrome di alienazione parentale, poi si è capito che la cosa non stava in piedi scientificamente, allora parliamo solo di alienazione parentale, adesso stiamo parlando di rifiuto genitoriale, tutte circostanze in cui non si indaga, per principio, sui motivi che possono aver spinto questo bambino e questa mamma a voler limitare i rapporti col padre”.
Entrando nel cuore del suo lavoro scientifico, Romito evidenzia: “In una ricerca recente che abbiamo fatto in Italia, facendo parte di un gruppo internazionale coordinato dall’Università di Ottawa, abbiamo potuto mostrare che in un campione di mamme coinvolte nel fatto di rischiare di perdere l’affido dei figli per l’alienazione parentale, in realtà il termine relazione parentale era utilizzato pochissimo. Quello che si utilizzava soprattutto era l’etichetta psichiatrica, ma con i risultati assolutamente identici. Noi abbiamo dimostrato, così come ricerche americane molto più consistenti per numero di casi studiati, che in una situazione di conflitto per l’affido di figli dopo la separazione se la mamma sostiene un’accusa di violenza fisica o sessuale verso il bambino viene immediatamente contrastata con il concetto di alienazione parentale o con un’etichetta psichiatrica e questo diminuisce di molto la probabilità che abbia l’affido del bambino. Naturalmente – osserva – questo non vuol dire che tutte le accuse corrispondono a verità. Il problema, però, è che in maniera pregiudiziale queste accuse vengono completamente ignorate, non vengono indagate, e quindi si lasciano mamma e bambini in una situazione di violenza che in alcuni casi culmina con la morte del bambino o della donna. Non dimentichiamoci di Federico Barakat e di altri casi di violenza gravissima perché i bambini sono stati affidati a un uomo violento. La situazione – conclude Romito – è ancora oggi molto, molto difficile”.
MIRAGOLI (UNICATT): ALIENAZIONE PARENTALE SENZA MISURA
“Credo che sia molto importante che sia la gente comune, ma soprattutto i professionisti, abbiano contezza di questo concetto. Se ne è molto parlato e se ne parla ancora oggi tanto, molte volte senza averne la reale dimensione teorica e operativa: ritengo che il concetto di alienazione parentale, o di sindrome addirittura di alienazione parentale, sia ormai un concetto che viene utilizzato senza una misura”.
Lo spiega alla Dire Sarah Miragoli, associata di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’università Cattolica di Milano, tra le promotrici della campagna contro l’uso della Pas/alienazione parentale nei tribunali lanciata da Protocollo Napoli.
“Noi – osserva – sappiamo dalla letteratura, ma anche dai casi clinici, che sicuramente ci possono essere casi di triangolazione nel momento in cui ci troviamo in una situazione di conflitto genitoriale in cui i figli, volenti o nolenti, sono coinvolti proprio perché la letteratura stessa ci dice che i figli un po’ spontaneamente si coinvolgono nel conflitto. Un altro conto è, invece, presupporre che ogni volta che ci sia un rifiuto da parte del bambino sia inevitabilmente frutto di una manipolazione, una strumentalizzazione. Sono due concetti molto differenti che è necessario indagare con attenzione, conoscendo di che cosa si sta parlando e soprattutto conoscendo le dinamiche del conflitto e di come il conflitto interferisce rispetto all’adattamento del bambino”.
Per Miragoli “ci sono dinamiche che debbono essere valutate con competenza, come lo stile di attaccamento, come le possibili relazioni traumatiche. Tutte queste cose vanno valutate prima di dare per scontato che un rifiuto corrisponda ad una manipolazione. E noi, all’interno del nostro percorso di studi all’Università Cattolica con la laurea magistrale in Psicologia dello sviluppo e processi di tutela, siamo molto attenti a fornire una competenza e degli strumenti operativi che permettano ai nostri futuri psicologi di collocarsi nella capacità di valutare le dinamiche familiare di qualsiasi tipo, soprattutto se già all’interno di un contesto di conflittualità che ha delle precise caratteristiche. Quindi, senza confondere o mischiare concetti magari vicini ma molto diversi”.
Secondo la docente servono “serietà e competenza. Essere seri nel proprio lavoro perché il nostro è un lavoro che ci mette di fronte alla vita delle persone e quindi un giudizio affrettato, una presa di posizione non suffragata da evidenze, può andare a ferire le persone, le dinamiche familiari. E la competenza è proprio la capacità di essere sempre aggiornati, leggere la letteratura, farsi un modello teorico, avere più visioni dello stesso fenomeno e articolare tutte queste visioni in una visione complessiva in modo tale da avere a 360 gradi la competenza di poter valutare qualcuno, la vita di qualcuno, soprattutto quando abbiamo a che fare con dei minori. Sbagliare o andare a recidere dei legami che invece possono essere importanti per lo sviluppo del bambino è un errore gravissimo. Così come lo è mantenere dei legami che invece per il bambino potrebbero essere nocivi. Riuscire a capire questo richiede competenza, capacità e bisogna quindi studiare, studiare e informarsi sempre di più, avere quella curiosità per un’analisi oggettiva dei fenomeni, non viziata dal senso comune o da quello che va di moda in quel momento”.
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